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Approvata la riforma costituzionale
Con 361 sì e 7 no la Camera ha approvato il ddl Boschi sulla riforma della Costituzione. Era richiesta la maggioranza assoluta dei voti (316), superata abbondantemente dalle forze che sostengono il governo, a cui si sono aggiunti i voti dei verdiniani e dei tosiani. Le forze di opposizione, invece, non hanno partecipato al voto.
Il testo è stato approvato in un’aula semivuota soltanto dai partiti della maggioranza mentre le opposizioni – M5S, FI, Lega, Fratelli d’Italia e Sinistra italiana – hanno deciso di uscire dall’emiciclo. Si conclude così un lungo percorso iniziato a marzo del 2014, subito dopo l’insediamento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, e che ora avrà un coda decisiva con il referendum confermativo di ottobre.
La riforma costituzionale approvata definitivamente modifica e completa quella del Titolo V del marzo del 2001, che ha introdotto il Federalismo: stop al bicameralismo perfetto; un Senato con meno poteri legislativi e composto da 95 senatori eletti dai Consigli regionali ma con legittimazione popolare che potrà proporre modifiche alle leggi approvate dalla Camera; nuovo Federalismo, con abolizione delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni e alcune competenze strategiche riportate in capo allo Stato. Abolizione definitiva delle Province e del Cnel.
Cosa cambia con la riforma
Come sarà il nuovo Senato : scheda
Le linee della riforma
Terzo sì alla Camera, con 357 Sì, 125 no e 7 astenuti, al ddl Boschi che torna all’esame del Senato per l’avvio della seconda lettura, trattandosi di riforme costituzionali, e lascia dietro di sé la spaccatura di Forza Italia. Avendo ottenuto “solo” 375 sì, e dunque al di sotto del quorum dei due terzi previsti dalla Costituzione per evitarlo, il cammino delle riforme prevede anche un referendum cui Renzi guarda già come “parola ai cittadini” a conferma del cammino riformatore
Le linee della riforma
Un Senato composto da 100 senatori eletti dai Consigli regionali, con meno poteri nell’esame delle leggi; nuovo Federalismo, con abolizione delle materie di competenza concorrente tra Stato e Regioni e alcune competenze strategiche riportate in capo allo Stato. Ecco i punti principali della riforma che la Camera ha votato in seconda lettura.
CAMERA – Sarà l’unica Assemblea legislativa e anche l’unica a votare la fiducia al governo. I deputati rimangono 630 e verranno eletti a suffragio universale, come oggi.
SENATO – Continuerà a chiamarsi Senato della Repubblica, ma sarà composto da 95 eletti dai Consigli Regionali, più cinque nominati dal Capo dello Stato che resteranno in carica per 7 anni. Avrà competenza legislativa piena solo sulle riforme costituzionali e le leggi costituzionali e potrà chiedere alla Camera la modifica delle leggi ordinarie, ma Montecitorio potrà non tener conto della richiesta. Su una serie di leggi che riguardano il rapporto tra Stato e Regioni, la Camera potrà non dar seguito alle richieste del Senato solo respingendole a maggioranza assoluta.
SENATORI-CONSIGLIERI – I 95 senatori saranno ripartiti tra le regioni sulla base del loro peso demografico. I Consigli Regionali eleggeranno con metodo proporzionale i senatori tra i propri componenti; uno per ciascuna Regione dovrà essere un sindaco.
IMMUNITÀ – I nuovi senatori godranno delle stesse tutele dei deputati. Non potranno essere arrestati o sottoposti a intercettazione senza l’autorizzazione del Senato.
TITOLO V – Sono riportate in capo allo Stato alcune competenze come energia, infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto. Su proposta del governo, la Camera potrà approvare leggi nei campi di competenza delle Regioni, «quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale».
PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA – Lo eleggeranno i 630 deputati e i 100 senatori (via i rappresentanti delle Regioni previsti oggi). Per i primi tre scrutini occorrono i due terzi dei componenti, poi dal quarto si scende ai tre quinti; dal settimo scrutinio sarà sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti.
CORTE COSTITUZIONALE – Cinque dei 15 giudici Costituzionali saranno eletti dal Parlamento: 3 dalla Camera e 2 dal Senato.
REFERENDUM – Serviranno 800.000 firme. Dopo le prime 400.000 la Corte costituzionale darà un parere preventivo di ammissibilità. Potranno riguardare o intere leggi o una parte purché questa abbia un valore normativo autonomo.
DDL DI INIZIATIVA POPOLARE – Salgono da 50.000 a 250.000 le firme necessarie per presentare un ddl di iniziativa popolare. Però i regolamenti della Camera dovranno indicare tempi precisi di esame, clausola che oggi non esiste.
LEGGE ELETTORALE – Introdotto il ricorso preventivo sulle leggi elettorali alla Corte Costituzionale su richiesta di un quarto dei componenti della Camera. Tra le norme provvisorie c’è anche la possibilità di ricorso preventivo già in questa legislatura per le leggi elettorali (es. Italicum) che verranno approvate dal Parlamento.
Le riforme cambiano il ruolo del Presidente
Se tutto fila liscio il prossimo presidente della repubblica dovrà fare i conti con un quadro istituzionale significativamente diverso da quello dei suoi predecessori. La riforma elettorale e quella costituzionale – non ancora definitivamente approvate – produrranno effetti rilevanti sul ruolo del capo dello stato. Non si tratta di modifiche di natura giuridica. I poteri formali del presidente non cambieranno. L’articolo 87 della Costituzione non è stato toccato. Cambia il meccanismo di elezione. Questa è la modifica più importante. Dal quinto scrutinio ci vorrà la maggioranza dei tre quinti e solo dopo l’ottavo basterà la maggioranza assoluta. Ma non è questo che conta veramente. Sarà invece la nuova legge elettorale a incidere sul ruolo del capo dello stato dandogli una responsabilità ancor più delicata di quella che ha avuto finora.
Con l’approvazione dell’Italicum e con il superamento del bicameralismo paritario si completerà l’evoluzione maggioritaria del nostro sistema politico. Ancor più che nel passato recente i governi si formeranno non in Parlamento ma nelle urne. L’Italicum è un sistema elettorale decisivo. Chi vince – primo o secondo turno non importa – ottiene la maggioranza assoluta dei seggi nell’unica camera che dà la fiducia. Il governo si formerà così. In questo modo il presidente del consiglio è di fatto eletto direttamente dai cittadini. È dal 1993 – con la legge Mattarella- che il sistema si è avviato in questa direzione. Certo, l’Italia resta una repubblica parlamentare.
Formalmente è il parlamento a fare e disfare i governi. Ma è difficile negare che con l’affermazione di sistemi elettorali maggioritari, che producono risultati elettori “decisivi”, di fatto il governo non si forma in parlamento ma nelle urne. In un quadro di questo genere il ruolo del presidente della Repubblica è più o meno quello di un notaio . Non esistono margini di discrezionalità. Il suo potere di nomina del capo del governo viene drasticamente ridimensionato. Questo è uno dei possibili scenari.
Ma le cose potrebbero andare diversamente. Nonostante il premio alla lista e il doppio turno senza apparentamento, l’Italicum potrebbe produrre governi di coalizione. Le liste infatti potrebbero essere formate da più partiti che si presentano insieme. Lo abbiamo già visto. Al secondo turno uno dei partiti al ballottaggio potrebbe fare – anche senza apparentamento formale – accordi con altri partiti per avere i voti dei loro elettori in cambio di posti di governo. Questi stratagemmi non possono essere esclusi. Nella cultura istituzionale della nostra classe politica non ci sono antidoti a questo tipo di comportamenti
E mancano al momento norme che li possano impedire. E allora, se ci saranno governi di coalizione, occorre mettere in conto che le coalizioni si possano disintegrare. E per finire non si può nemmeno essere certi che il partito vincente non si divida nel corso della legislatura e metta in crisi il governo. Insomma la stabilità promessa dall’Italicum potrebbe non materializzarsi. O potrebbe farlo col tempo. In questi casi come si comporterà il nuovo presidente della Repubblica? Certamente non potrà essere un notaio.
Se sono gli elettori a scegliere chi governa è legittimo che i partiti in parlamento possano non tener conto di questa decisione elettorale e avocare a sé il diritto di sostituire il governo deciso nelle urne con un governo deciso nelle aule parlamentari? Formalmente la risposta è sì, ma non si può negare che un nuovo governo che sia sostanzialmente diverso da quello che ha vinto le elezioni, e che ha incassato un premio di maggioranza, sconti un difetto di legittimità politica, soprattutto nel caso in cui a formarlo siano in parte o in toto partiti di opposizione. Potrebbe accadere. Insomma l’evoluzione maggioritaria del sistema politico crea una potenziale tensione con l’impianto parlamentare e proporzionale della Costituzione. L’Italicum e il superamento del bicameralismo paritario accentueranno questo problema.
D’altronde non si può sostenere che tra parlamentarismo e regole di voto maggioritarie esista incompatibilità. Sarebbe una tesi assurda in presenza di molte democrazie in cui i due elementi coesistono. Ma la loro coesistenza è complessa e delicata. Si fonda su una cultura politica e giuridica più pragmatica che dogmatica, sul buon senso, sul rispetto dei ruoli e sul voto retrospettivo degli elettori. Alla fine dovranno essere loro a giudicare nelle urne il merito degli eventuali cambiamenti intervenuti nell’esecutivo tra una elezione e l’altra. Ma tutto ciò non è scontato. Il ruolo del capo dello stato sarà decisivo. Sarà lui a dover reinterpretare la Costituzione in chiave maggioritaria trovando il giusto punto di equilibrio tra legittimità costituzionale e legittimità politica
Roberto D’Alimonte
http://docenti.luiss.it/dalimonte/
Il Sole24ore 30 gennaio 2015
DDL costituzionale per la riforma del Senato
Ecco come sarà il nuovo Senato”. Il premier Matteo Renzi, insieme al ministro delle Riforme Maria Elena Boschi e al sottosegretario Graziano Delrio, ha presentato in conferenza stampa il ddl di riforma costituzionale del Senato e del Titolo V, approvato oggi all’unanimità dal Consiglio dei ministri. Questi i principali punti della riforma sulla quale – parole dello stesso premier – “si gioca una intera carriera politica”:
– Senato delle autonomie. Il futuro Senato “si chiamerà Senato delle autonomie” e sarà composto da 148 persone; 21 nominati dal Quirinale e 127 rappresentanti dei Consigli Regionali e dei Sindaci, che non avranno alcuna indennità. Renzi ha escluso la proposta di arrivare a 630 parlamentari, divisi in 420 deputati e 210 senatori (fermo restando il superamento del bicameralismo perfetto), in quanto uno degli obiettivi prioritari è ridurre i costi della macchina dello Stato. Il ddl prevede una composizione paritaria di tutte le Regioni e tra Regioni e Sindaci, ma, secondo la Boschi, c’è “la disponibilità a esaminare una composizione proporzionale al numero degli abitanti di ciascuna Regione”.
– Fine del bicameralismo perfetto. Secondo la proposta del governo, il nuovo Senato delle autonomie, rispetto a quello attuale, perderà molti poteri, e cioè: 1) voto di fiducia; 2) voto sul bilancio; 3) elezione diretta dei senatori; 4) indennità per i senatori. Con queste novità, verrebbe abolito il cosiddetto “bicameralismo perfetto” per gran parte del processo legislativo e di controllo. Il ministro delle Riforme Boschi ha assicurato, tuttavia, che “il bicameralismo perfetto resterà solo in materia costituzionale, come previsto ad esempio in Germania. Su quelle che sono le regole fondamentali del nostro vivere insieme rimane una doppia lettura come maggiore garanzia”.
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– I senatori a vita. Gli ex presidenti della Repubblica e gli attuali senatori a vita andranno comunque a far parte del nuovo Senato delle autonomie “in quanto figure super-partes e non legate al vincolo della fiducia”.
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http://www.repubblica.it/politica/2014/03/31/news/scheda_nuovo_senato-82405856/?ref=HREA-1
La democrazia è un’opera d’arte, ha una sua estetica
Una confessione: nel 2014 si può ancora provare gioia a leggere un libro di oltre 300 impegnative pagine sulla democrazia e sui suoi problemi, che sono molti. E a parlarne poi con chi l’ha scritto. Si può essere felici — oggi, epoca di velocità digitale e di insofferenza per il profondo — a scoprire che da qualche parte la fiamma della ricerca delle cose di base rimane accesa. Soprattutto, accesa non in un angolo marginale e riparato dai venti, ma al cuore di una delle questioni del momento, scossa dalle vicende del mondo, sotto la pressione di grandi cambiamenti. Il libro, in uscita il 27 marzo, è Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e verità ; l’ha scritto Nadia Urbinati, docente di Teoria politica alla Columbia University di New York, e lo pubblica Egea – Università Bocconi Editore: negli Stati Uniti è in libreria con il titolo Democracy Disfigured (Harvard University Press).
La professoressa Urbinati dice di essere stata motivata a scriverlo «da una ragione empirica reale»: lo stile e il contenuto della politica italiana nell’epoca di Berlusconi. Questione che in America non è solo curiosità per la persona, ma interesse per l’evoluzione dell’idea e della pratica della democrazia. Da lì, ha costruito un lavoro che per molti versi si può definire globale: facendo perno sull’idea di democrazia come diarchia dei poteri (delle regole e dell’opinione), analizza lo stato della democrazia ovunque essa si declini.
Prendiamo Barack Obama. Urbinati sostiene che il presidente americano sia l’esempio meglio riuscito della tendenza plebiscitaria che sta dando forma ai sistemi democratici. «Plebiscito dell’audience», lo chiama: il leader carismatico che parla direttamente al popolo bypassando il rapporto con le istituzioni e con l’elezione rappresentativa, gestita non dai partiti, ma dai «tecnici dell’audience», coloro che sanno smontare la complessità dell’elettorato e con i numeri e i sondaggi capiscono che cosa vuole il popolo o come istigarlo a volere.
«Obama è straordinario in questo, più innovativo di Berlusconi — dice Urbinati —, il quale aveva i mezzi e li ha usati. Obama ha invece inventato un metodo. Soprattutto nella prima campagna elettorale, ha messo da parte il partito democratico e ha formato un partito suo, obamiano». In rapporto diretto con il popolo, o con quella parte di popolo che i tecnici dell’audience hanno individuato e messo assieme sulla base di contenuti appunto obamiani. «Più che populismo, questa è una forma plebiscitaria di democrazia — dice la professoressa —. Forse Renzi potrebbe fare, o sta facendo, qualcosa del genere: un partito suo, che va al di là del Pd e attinge al pubblico largo». Le primarie, in fondo, conducono a questo, al leader che viene prima di tutto, quasi indipendente dal programma politico, impegnato piuttosto su questioni generali capaci di mettere assieme molti pezzi di elettorato, dovunque siano. «A differenza delle fasi più populistiche che abbiamo avuto in passato, dove c’era una presenza mobilitata di ideologia e di popolo, nella fase plebiscitaria il popolo non partecipa, guarda: è occhio, assiste allo spettacolo».
È questo plebiscito dell’audience la forma di democrazia che ha più strada davanti, che probabilmente ha più futuro, secondo la professoressa. La quale, nel libro, analizza a fondo anche altre due caratteristiche che si riscontrano oggi nei Paesi democratici. Una è la tendenza «epistemica», in sostanza la depoliticizzazione della democrazia in nome di una conoscenza più o meno scientifica che dovrebbe portare alla scelta giusta: il governo dei tecnici, insomma, fenomeno provato non solo dall’Italia. Anche questo uno «sfigurare» la democrazia delle procedure. La richiesta di speditezza nelle decisioni, di velocità, anche sotto la pressione dei mercati, fa apparire come «lacci e lacciuoli» alcune delle forme caratteristiche della deliberazione collettiva, dice Urbinati, per cui la procedura, che dovrebbe servire per gestire il conflitto, viene invece vista come un intralcio: in nome del poco tempo o del sapere al potere, importa meno come si prende una decisione e più il risultato. «È il passaggio dal metodo proceduralista puro a quello conseguenzalista — dice Urbinati —. Problema non nuovo, quello della velocità che non deve andare a violare la deliberazione collettiva, se lo poneva già Condorcet nel 1792. Il fatto è che la democrazia è gestione della temporalità, è “come si fanno le cose insieme”, dove la procedura è più determinante del fatto: permette di stare insieme, pur con obiettivi diversi, e prendere decisioni che sempre si possono cambiare; un valore al quale non possiamo rinunciare».
In questa cornice, la professoressa Urbinati mette anche in dubbio l’idea di abolire il bicameralismo, cioè di cancellare il Senato italiano, sia che lo si faccia per accorciare i tempi delle decisioni, ancora di più se lo si fa per risparmiare denaro. «Dobbiamo sapere che il potere, soprattutto se accumulato, è pericoloso», dice. E il bicameralismo ha proprio il senso di mettere un limite al potere attraverso la lentezza, opposta all’emergenza frettolosa, di fare prevalere l’opinione rispetto a un presunto fine razionale. È grazie a passaggi del genere che viene da essere felici, con in mano questo libro. «La democrazia è opera d’arte, ha una sua estetica», dice la professoressa.
L’altra tendenza è quella populista. La quale «fa coincidere l’opinione di una parte del popolo con la volontà dello Stato», scrive Urbinati. Mentre il potere «epistemico» tende ad annullare l’«opinione» nella verità, quello populista identifica la «volontà» di molti con quella del tutto: ma «volontà» e «opinione» sono i due poli della struttura diarchica che la democrazia rappresentativa tiene distinti, benché in comunicazione permanente. Annullare la distinzione equivale a sfigurare la regola democratica. La tendenza plebiscitaria (obamiano-renziana, la terza delle tre deformazioni esaminate) accetta invece la struttura diarchica, ma separa i pochi (che «fanno» la politica) dai molti (che la «guardano») e inoltre esalta una delle tre funzioni dell’«opinione», quella estetica (la visibilità del leader e la passività di chi guarda lo spettacolo) a scapito di quelle cognitiva e politica. Anch’essa, dunque, è sfigurante.
Una democrazia percorsa da queste trasformazioni deve poi confrontarsi con la fase internazionale. Alla sua «solitudine planetaria» — come la chiama Urbinati — determinata dalla caduta del comunismo è succeduto il confronto con Paesi autoritari, «con sistemi meno cacofonici», che ne contestano legittimità e superiorità: la Russia e la Cina, per fare i due casi del momento. «È di nuovo Sparta contro Atene». Il che rende le sfide che la democrazia ha di fronte ancora più interessanti. A patto che riusciamo a vedere quello che succede davvero, che non ci fermiamo a ciò che tutti danno per scontato. A patto che, come dice la professoressa della Columbia, riusciamo ad «andare sotto la pelle».
Danilo Taino, Corriere della Sera • 20 mar 2014
http://www.dirittiglobali.it/2014/03/20/leader-prima-tutto-nuova-democrazia/