Il regista olandese Theo Van Gogh, assassinato da un estremista musulmano ad Amsterdam poco più di dieci anni fa, aveva molto in comune con Charlie Hebdo. Come i redattori e vignettisti francesi, era un provocatore, un anarchico morale, un artista d’assalto che ogni volta che vedeva un tabù voleva distruggerlo. E visto che l’antisemitismo è il grande tabù europeo del dopoguerra, Van Gogh insultava gli ebrei con barzellette grossolane sulle camere a gas. E visto che tutti dicevano che bisognava «rispettare» l’islam, si faceva beffe di Allah e del profeta, più o meno come faceva Charlie Hebdo.
Lo scopo dei distruttori di tabù è scoprire fin dove si spingono i limiti, legali e sociali, della libertà di espressione. Perché nonostante i proclami un po’ isterici che abbiamo sentito sull’onda dei raccapriccianti omicidi della settimana scorsa, la libertà di espressione non è assoluta. Quasi tutti i Paesi europei hanno leggi contro l’incitamento all’odio. La libertà di espressione in realtà è abbastanza relativa. Quello che può dire un artista o un romanziere non può dirlo un giudice o un politico; il linguaggio che usano i neri americani fra loro suonerebbe oscenamente offensivo se lo usasse un bianco; e così via. Le semplici regole della buona educazione creano barriere sociali che ci impediscono di dire tutto quello che vogliamo. Il ruolo dei provocatori è sfidare quelle barriere sociali. Deve esserci spazio per questi iconoclasti, nelle arti e ai margini del giornalismo, e di sicuro non devono essere oggetto di attacchi violenti.
Ma equiparare Theo Van Gogh o Charlie Hebdo con la “democrazia” o la “civiltà occidentale” sembra eccessivo; si potrebbe allo stesso modo sostenere che Al Qaeda nello Yemen rappresenta la civiltà orientale o islamica. La civiltà occidentale stessa è un concetto piuttosto vago: si intende la civiltà greco-romana, quella cristiana, quella giudaico- cristiana? O si intende l’Illuminismo? E in tal caso, quale Illuminismo? Voltaire? Locke? Adam Smith? In ogni caso, l’esigenza di infrangere i tabù non è certo una peculiarità esclusivamente occidentale. E la cultura dell’insulto e della provocazione per certi versi è il contrario del modo in cui funziona la democrazia.
La democrazia è basata sulla disponibilità a fare compromessi, a risolvere pacificamente i conflitti di interessi nell’ambito dello Stato di diritto. Perché la democrazia possa funzionare, i cittadini devono essere pronti a dare e ricevere. Questo significa anche che accettiamo di convivere con le differenze culturali o religiose, senza offendere deliberatamente quelli di cui non condividiamo i valori.
Non è una vile collaborazione con il male, non è una rinuncia alla nostra libertà di espressione. E non è nemmeno, come qualcuno sosterrebbe, una mancanza di principi. La tolleranza non è necessariamente un segnale di debolezza. La tolleranza dimostra una riluttanza a vedere i valori sociali in termini assoluti, o a dividere il mondo in bene e male. Perfino la tolleranza non è assoluta. Una cosa che nessuna società democratica può accettare è l’uso della violenza per imporre le nostre idee, che siano religiose o politiche, o l’una e l’altra cosa. ….
Tratto da:
Da Van Gogh a Charlie è la politica il vero bersaglio” di Ian Buruma – 12 gennaio 2014 Repubblica