L’isola che non c’è.

utopiaThomas More creò “Utopia” cinquecento anni fa, nel 1516, in età matura e mentre si stava avviando a una brillante carriera politica che lo avrebbe portato a essere cancelliere di Enrico VIII. Il divorzio del re segnò la rottura dell’Inghilterra con la Chiesa di Roma e la fine della carriera e della vita del cardinale cattolico More, giustiziato il 6 luglio del 1535 (santificato da Pio XI nel 1935 e proclamato da Giovanni Paolo II protettore dei politici). “Utopia” é il capolavoro di questo grande umanista cristiano che Erasmo da Rotterdam descrisse come un credente ansioso di una fede verace e nemica di ogni superstizione, e che i bolscevichi immortalarono in un monumento posto davanti al Cremlino accanto a quello di Tommaso Campanella. Prima opera che porta questo nome, Utopia non é un libro semplice e sulle intenzioni del suo autore (che riconobbe la schiavitù e la subordinazione delle donne) gli studiosi non si trovano ancora d’accordo. Certamente, si trattò di un progetto che rifletteva le condizioni storiche dell’Inghilterra del tempo, afflitta dall’intolleranza religiosa (alle soglie della Riforma protestante) ma prima ancora dalla miseria delle classi povere e dall’opulenza di un’oligarchia abituata al privilegio di rapina.
Utopia non disegna però un sogno d’evasione nella terra dell’abbondanza. Racconta una società in sintonia con l’etica dei moderni, dove il lavoro è onorato, anche se nessuno è costretto alla stessa mansione per tutta la vita; dove si rispetta un tempo lavorativo di sei ore giornaliere affinché ognuno abbia il tempo dello svago e possa coltivare rapporti affettivi e sociali, l’arte e la scienza. In
Utopia, la legge è uguale per tutti; la giustizia segue un dosaggio di oneri e di onori misurato secondo il servizio reso alla società, non l’appartenenza a un ceto o una classe; la vita pubblica aborre la retorica perchè menzognera; e infine, il popolo non è una platea addomesticata da retori e da legulei. Nelle città federate di Utopia si promuovono la cultura, la letteratura e l’arte; sono abolite le sofisticherie teologiche e metafisiche, si educano i giovani secondo i principi del metodo sperimentale, il più adatto a un popolo che si autogoverna e ha il potere ultimo delle decisioni; i cittadini delegano l’amministrazione a magistrati che sono scrupolosamente controllati; le amicizie e le parentele sono bandite da ogni relazione pubblica.
L’utopia non è propriamente un luogo di evasione dal presente, ma un esercizio di immaginazione che denuncia il disordine della società esistente e mostra i principi a partire dai quali è possibile correggerlo. L’isola che non c’è di More illustra le norme del ben vivere collettivo e privato secondo un ideale che appartiene alla natura umana come un dover essere che la ragione indica – non un assurdo, non un disegno che sta fuori della nostra portata. L’utopia è, in questo senso, la matrice delle costituzioni moderne, delle leggi che i popoli scrivono nella loro fase creatrice, quando emergono da grandi sofferenze e sanno ragionare per grandi visioni, pensando non a quel che conviene a loro in quel momento e alla loro generazione, ma a quel che farà dignitoso il paese per le generazioni a venire. Insieme al cinquecentesimo anniversario dell’Utopia di More, nel 2016 si celebrerà anche il settantesimo anniversario della nostra Repubblica, la matrice utopica della nostra società. L’Assemblea che si insediò dopo il 2 giugno 1946 segnò il carattere della nostra Costituzione, nata dalla lotta partigiana e guidata da partiti politici, da cittadini, cioè, con diverse idee politiche e capaci di convenire pur dissentendo. La capacità di immaginare il futuro è innervata nel presente, come un punto di riferimento senza il quale non ci è possibile fare scelte. L’utopia è una creazione esemplare di questa capacità. Un luogo che non c’è del quale non si può fare a meno.

Nadia Urbinati

Utopia, quell’isola che non c’è diventata madre di tutte la Costituzioni.

Repubblica 8 gennaio 2016

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Il governo di Pechino indeciso su tutto fa crescere il caos

bcinaChiudo la Borsa, così la smette di scendere. Anzi no, la riapro. Lo sbandamento del governo cinese di fronte al crac, spaventa tanto quanto i problemi dell’economia reale che gli fanno da sfondo. Lo spettacolo offerto dalle autorità di Pechino è sconcertante. Messo alle strette dalla fuga dei capitali dal mercato azionario di Shanghai, il governo ha reagito in modo incerto, contraddittorio e perfino scomposto. La figuraccia non si addice alla seconda potenza economica mondiale. Rivela una “transizione incompiuta”. La leadership comunista, per quanto abbia formazione tecnocratica e moderna (talvolta nelle università americane), nel momento della paura torna ai vecchi riflessi pavloviani: s’illude che il “genio” (benefico o malefico) dei mercati sia una creatura docile, e gli ordina di “tornare nella bottiglia”.

Uno spettacolo simile si era visto ad agosto. Si è ripetuto negli ultimi tre giorni, con il nuovo pesante scivolone delle quotazioni azionarie cinesi. Il governo in sole 48 ore ha fatto tutto e il contrario di tutto. Ha usato mezzi amministrativi, editti dall’alto, per contrastare il crollo imponendo alle banche pubbliche di comprar titoli. Ha lanciato minacciosi proclami contro gli speculatori al ribasso. Ha usato generosamente i “circuit-breaker”, parola presa in prestito dagli impianti elettrici: “spezza-circuito” è il termine inglese, in italiano sono i dispositivi salvavita che impediscono di morire fulminati. In Borsa sono meccanismi di interruzione automatica degli scambi, qualora le oscillazioni di prezzo eccedano una certa soglia. I “circuit-breaker” esistono in molte Borse occidentali inclusa Wall Street. Ma le autorità cinesi ne hanno fatto un uso davvero abbondante. Fino a decidere la chiusura totale della Borsa, quando scendeva troppo. Il colmo si è raggiunto ieri: Shanghai ha operato per soli 30 minuti, poi basta. Infine il ripensamento. Con un dietrofront le autorità annunciavano che oggi la Borsa avrebbe operato normalmente, senza sospensioni. Il tira- e-molla non ha rassicurato nessuno.

A questo si è sovrapposto l’effetto della svalutazione. Anche sulla moneta nazionale, yuan o renminbi, il governo di Pechino sta giocando col fuoco. Iniziò a svalutarla nell’agosto scorso, presentando la sua decisione come un avvicinamento ai valori di mercato. Le autorità cinesi, a cominciare dalla banca centrale, hanno spiegato a più riprese di voler trasformare il renminbi in una moneta pienamente convertibile, il che comporta lo smantellamento delle restrizioni sui movimenti di capitali. Decisione benvenuta al Fondo monetario internazionale, che infatti a novembre ha premiato la Cina inserendo il renminbi nelle sue valute ufficiali insieme a dollaro, euro, yen e sterlina. Ma questo ha generato negli investitori la previsione – o il sospetto – che il presidente Xi Jinping voglia anche aiutare l’industria esportatrice con un renminbi debole. La prospettiva di una svalutazione competitiva è stata confermata questa settimana quando il renminbi ha ripreso a scivolare al ribasso. E’ scattata la spirale delle aspettative: gli investitori ora si attendono che la valuta cinese vada più giù. E allora preferiscono uscire dalla Borsa di Shanghai per non subire perdite su titoli espressi in una moneta che sta calando. I risparmiatori cinesi considerano urgente mettersi al riparo anche loro. Come si spiegano i molteplici errori commessi da Xi Jinping e dalle varie autorità responsabili per il governo dell’economia, inclusa la banca centrale che non è indipendente dal potere politico? Una spiegazione semplice chiama in causa la curva di apprendimento. I leader cinesi hanno mostrato competenza ed efficacia in altri campi dello sviluppo economico ma la finanza globale è un mondo ancora in parte nuovo per loro. Inoltre questa classe dirigente ha conosciuto 30 anni di boom, ora deve fare i conti con la prima vera crisi da quando la Cina è un colosso mondiale. Ebbe solo due episodi di “quasi-crisi”: l’epidemia Sars del 2003 quando l’economia cinese temette l’isolamento (durò pochi mesi); poi la Grande Contrazione americana del 2008-2009 che ebbe pesanti contraccolpi sull’export cinese. In quell’epoca che oggi sembra lontana, la Cina poteva risollevarsi con gli strumenti classici del dirigismo, del capitalismo di Stato, delle grandi manovre di spesa. Di fronte all’attuale rallentamento, Xi Jinping non vuole ripercorrere una strada che ha gravato il sistema economico di troppi debiti, opere pubbliche inutili, cattedrali nel deserto, inefficienze e corruzione. Deve reagire a questa crisi con terapie nuove. Non è rassicurante che il suo “addestramento” avvenga in volo, nel mezzo di turbolenze serie.

C’è poi il problema del consenso, che anche un regime autoritario deve porsi. Centinaia di milioni di cinesi hanno investito i loro risparmi in Borsa. Xi sta facendo uno sbaglio psicologico ed uno politico. Con i suoi interventi per fermare il crollo delle azioni crea aspettative che non potrà soddisfare, quindi diffonde ulteriore insicurezza. L’errore politico è quello di legare la propria immagine all’indice di Borsa. Questa Cina sta imboccando una transizione delicata, verso un orizzonte che si potrebbe riassumere così: crescere meno ma crescere meglio. Prima di arrivarci, però, può incappare in tempeste violente. E tutti quanti dobbiamo allacciare le cinture di sicurezza.

Federico Rampini

Repubblica 8 gennaio 2016