Le ostriche coltivate in Europa vengono controllate per provare l’assenza di elementi nocivi, in America invece si controlla l’acqua in cui crescono: test scientifici hanno accertato che è esattamente la stessa cosa: si tratta solo di armonizzare le regole. Le creme solari vengono accuratamente testate per verificare che non contengano sostanze tossiche sia in Europa che in America: le autorità sanitarie hanno detto che è inutile ripetere i test quando le creme sono vendute sull’altro lato dell’oceano. Un batterio del prosciutto, Lysteria monocytogens, è accettato in piccole dosi in Europa mentre in America c’è tolleranza zero. Ma è maturo l’accordo per far venire gli ispettori americani in Europa a certificare gli stabilimenti Lysteria-free. E via dicendo. Tutto questo sarà reso possibile dal Ttip (Transatlantic trade and investment partnership), il trattato di libero scambio Usa-Ue.
L’Ambrosetti ha confrontato i rapporti ufficiali e ha tratto la media: una volta approvato il trattato, il Pil crescerà di oltre lo 0,5% l’anno in Europa (73,2 miliardi di euro dei quali 5,6 in Italia) e dello 0,6 in America (85,5 miliardi). L’auto e l’alimentare cresceranno rispettivamente del 21,4 e del 9,4%, il valore aggiunto dell’export europeo reso possibile dai miglioramenti nei bilanci delle aziende esportatrici supererà i 190 miliardi, solo in Italia saranno possibili 30mila assunzioni entro tre anni.
Ma allora perché il Ttip ha tanti nemici?
Perché duecentomila manifestanti hanno sfilato sotto la Porta di Brandeburgo a Berlino e una petizione con tre milioni di firme è stata consegnata a Bruxelles per chiedere di interrompere le trattative? Per rispondere, l’unica è andare a vedere nel dettaglio cosa comprende il Ttip. Per la prima volta è possibile perché, a differenza degli altri accordi commerciali che vengono svelati al momento della discussione parlamentare, dopo la fase negoziale, questa volta, proprio per consentire una serena e consapevole valutazione, il Consiglio europeo ha reso noto il “mandato” con cui investe la Commissione della trattativa. Che si concluderà non prima del prossimo anno: una volta siglato, il trattato dovrà essere discusso e approvato dal Parlamento europeo e poi dai Parlamenti nazionali. E qui c’è una prima risposta all’opposizione che non ci sarebbe un controllo democratico.
Altrettanto laborioso l’iter in America, “anche se grazie alla Trade promotion authority ottenuta prima dell’estate, che le consente di negoziare gli accordi senza il vaglio sistematico del Congresso, e avendo appena chiuso l’altro trattato con l’Asia-Pacifico puntualizza Licia Mattioli, responsabile per l’internazionalizzazione della Confindustria – l’amministrazione Usa può convogliare tutte le risorse e le energie negoziali sul Ttip per provare a rendere possibile la conclusione prima dello scadere del mandato di Obama. I risultati di questo nuovo impulso sono già visibili”.
Dal Ttip è esplicitamente escluso il settore culturale nonché audiovisivo (compresa Internet), proprio i due punti d’attacco della contestazione. Ancora: i servizi pubblici non saranno privatizzati, e quindi nessuna norma impedirà a Stati e enti locali di continuare a gestire acqua, sanità, istruzione. “Non si tratta dunque di capire se e come gli americani accetteranno queste eccezioni, semplicemente il tema non è nella disponibilità dei negoziatori”, commenta Carlo Calenda, viceministro allo Sviluppo con delega al commercio estero. “Allo stesso modo il mandato chiarisce che non verrà modificato il principio di precauzione che regola l’ingresso degli Ogm in Europa: non sarà consentito finché non verrà conclamata la loro non pericolosità, esattamente il contrario dell’America dove sono ammessi finché qualcuno non prova che sono nocivi”.
L’Italia, tra l’altro, ha recentemente chiarito che non ammetterà sul suo territorio neanche la coltivazione, e che le importazioni sono consentite in pochissimi casi solo per i mangimi. “La mobilitazione contro il Ttip – commenta Calenda nasconde una battaglia ideologica contro l’economia di mercato, o forse contro l’America. Intendiamoci, sono non solo legittime queste battaglie ma a volte persino necessarie per stimolare un confronto ed evitare pensieri unici che non fanno bene alla democrazia, purché però si abbia il coraggio di farle apertamente senza diffondere informazioni false per alimentare paure e allarmismi”.
Ma allora, cosa c’è nel Ttip? Il trattato è diviso in tre capitoli: 1) barriere tariffarie, 2) barriere normative, 3) regole di enforcement.
Ognuno ha un’infinità di sottocapitoli dedicati ai più svariati problemi e attività economiche. Al round negoziale di Miami (l’undicesimo della serie iniziata nella primavera del 2013 conclusosi in modo interlocutorio venerdì scorso) sono stati al lavoro 50 gruppi settoriali. Vediamo allora punto per punto.
I dazi doganali fra Europa e Usa sono già bassi, poco più del 3% in media. Ma ci sono diverse punte clamorose: l’America impone una tariffa del 350% sulle sigarette e sul tabacco da pipa, del 160% sui prodotti agricoli (quando ne permette l’importazione), del 56% sulle scarpe, fino al 40% su tessile e abbigliamento. L’Europa non è da meno: penalizza le forniture in entrata dagli Stati Uniti fino al 25% per l’agricoltura, il 22% per i camion, il 17% sulle scarpe, il 12% sui vestiti, e così via. Di tutto questo dopo il Ttip non resterà praticamente nulla: l’obiettivo è azzerare fino al 97% di tutte le tariffe esistenti.
Le barriere non tariffarie rappresentano il vero cuore del Ttip. “In sostanza si tratta di armonizzare e quindi eliminare, secondo standard che di regola saranno i più rigorosi fra quelli vigenti sulle due sponde dell’Atlantico – dalle regole antinquinamento fino a quelle sulla sicurezza – una lunga serie di vincoli“, spiega Alessandro Terzulli, capo economista della Sace. Se gli Ogm sono fuori discussione il settore alimentare è fitto di esempi. In alcuni casi le differenze sono insormontabili, “perché radicate nella cultura dei rispettivi Paesi “, dice Calenda. Nessuno potrà evitare che gli americani continuino a somministrare ormoni ai bovini, però nessuno obbligherà gli europei a importarne. Così questo comparto non sarà oggetto dell’accordo: “Altrimenti si rischia di far saltare tutto, se uno dei due lati si accanisce su qualche punto”. Ma su tanti altri capitoli si sta lavorando. Per l’Italia è di particolare importanza imporre per la regola che blocchi l'”evocazione” di un prodotto Made in Italy, il famoso caso del Parmesan o del “Grana like” per intenderci. Non è una battaglia facile perché gli americani valorizzano non il fattore provenienza geografica bensì l’effetto-marca, proprio il contrario di quanto è nei nostri interessi. Eppure qualcosa comincia a muoversi: si sta facendo leva sul fatto che tutto sommato anche a loro conviene che non esistano più i jeans Real Texas fatti ad Afragola o a Treviso. Altro punto, il procurement, cioè l’aggiudicazione delle opere pubbliche che spesso è riservata a compagnie Usa. “Anche qui si sta andando lentamente verso una difficile intesa”, spiega Calenda. “Dove invece è inutile forzare è sugli slot aeroportuali delle linee interne, dove fatalmente i vettori locali continueranno a essere favoriti”. In generale, il tentativo è di creare un sistema di decision making “che metta le imprese in grado di fabbricare i prodotti una volta sola, evitando duplicazioni di modelli e test e riconoscendo standard validi per entrambi i continenti”, spiega Mattioli di Confindustria. Nell’auto il costo medio delle diverse norme è il 35% del prodotto esportato, nell’alimentare del 40, nell’aerospazio del 55. “Spesso il fatto di dover fabbricare due diversi prodotti per i due mercati scoraggia talmente tanto le piccole imprese, da far sì che queste desistano perdendo quote di mercato importantissime”, riprende Calenda, che così risponde a un’altra obiezione ricorrente, che il Ttip sarebbe disegnato su misura per le grandi imprese. “È vero tutto il contrario”. A Miami “con una tabella di marcia ancorata a date precise e risultati concreti” dice Mattioli “i negoziati sono finalmente entrati nel vivo. Il progetto di armonizzare gli standard tecnici e industriali punta sulla pattuglia avanzata di nove settori-apripista: chimica, cosmetica, engineering (frigoriferi, prese elettriche, trattori, apparecchi a pressione), l’Ict, apparecchiature medicali, pesticidi, farmaceutica, tessile, auto“.
Per rendere obbligatorie le regole, l’unica è creare un sistema di sanzioni con un organismo in grado di comminarle in modo cogente. Per rendere più forte il sistema e più vicino alle abitudini europee, la commissaria alla concorrenza Cecilia Malmstrom ha proposto di modificare la cosiddetta “clausola Isds” che prevede che l’investitore o l’esportatore possa chiamare in causa uno Stato presso un gruppo arbitrale internazionale se si ritiene vittima di discriminazione o esproprio da parte del Paese che ospita l’investimento. Ora invece dovrebbe essere creato un vero e proprio tribunale con giudici professionisti di entrambi i continenti, che darebbe più garanzie contro i conflitti d’interesse. È importante includere uno strumento di tutela nel Ttip anche per creare un precedente rispetto ad altri trattati, tipo con la Cina o altri Bric, dove la necessità di proteggere i nostri investitori è più forte perché il valore della rule of law è inferiore rispetto agli Usa. E così si potrà in futuro pensare ancora più in grande: a un’area di libero scambio che comprenda i Bric e tutto il pianeta.
Eugenio Occorsio
26 ottobre 2015
Affari &Finanza
http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2015/10/26/news/usa-ue_commercio_senza_pi_barriere_perch_i_no-ttip_attaccano_il_trattato-125967435/
INCHIESTA: IL TRATTATO GLOBALE CHE FA PAURA
Da due anni Europa e Stati Uniti discutono in segreto del Ttip, l’accordo di libero scambio che dovrebbe creare il più grande mercato economico mondiale, liberalizzando commerci e investimenti. La promessa è quella di aumentare ricchezza e occupazione, ma sulle due sponde dell’oceano l’opposizione si fa sempre più vasta. Il timore è soprattutto quello di concedere troppo potere alle multinazionali e di aprire i nostri supermercati a prodotti che non garantiscono gli stessi standard di sicurezza conquistati dai consumatori europei
http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2015/05/04/news/inchiesta_ttip-113488532/