Germania, nuovo record del surplus

germasurLa Germania ha segnato il terzo record consecutivo di surplus commerciale, il più elevato dalla fine della seconda guerra mondiale, quando iniziò la rilevazione. Nel 2016 l’avanzo è salito a 252,9 miliardi di euro, rispetto ai 244 del 2015 e le esportazioni sono aumentate in un anno dell’1,2% mentre l’import è cresciuto solo dello 0,6 per cento. Con questi saldi, il commercio estero rappresenta ormai l’8,1 per cento del Pil del paese. In forte surplus anche le partite correnti, a 266 miliardi di euro, una misura della riluttanza delle aziende tedesche a investire in patria e quindi dei redditi in entrata dall’estero.
I dati, diffusi ieri dall’ufficio di statistica, sono destinati a rendere incandescente la polemica con l’amministrazione americana. Quando a luglio Donald Trump incontrerà i leader europei al G-20 la cancelliera tedesca, che ospiterà il vertice ad Amburgo, metterà subito sul tavolo il dossier commercio. L’Europa, ha detto qualche giorno fa Angela Merkel, deve capire meglio quali sono le vere «priorità» dell’amministrazione americana.
Le dichiarazioni protezionistiche del nuovo governo Usa preoccupano non poco la prima economia dell’Eurozona nonché terzo esportatore al mondo.
Se Washington vuole davvero chiudere i suoi confini erigendo barriere protezionistiche, i tedeschi rischiano di perdere il primo mercato di destinazione delle loro merci. Ma sarebbero pronti, così almeno ha affermato Merkel, a trovare nuovi sbocchi alla propria capacità produttiva, guardando all’Asia ma anche ad altre aree del mondo, come il Sudamerica.
Il confronto, a distanza, è già iniziato. Il presidente Trump ha tuonato contro la Germania che inonda gli Stati Uniti di automobili mentre i produttori americani non hanno sufficiente accesso al mercato tedesco. Ha rincarato la dose il capo del nuovo consiglio per il commercio estero, Peter Navarro, accusando la Germania di sfruttare una valuta comune, l’euro, ampiamente sottovalutata. Il botta e risposta è stato intenso negli ultimi giorni: «Accuse assurde» ha replicato il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Più interessante l’ammissione di Wolfgang Schäuble, ministro delle Finanze di Merkel: «È vero l’euro è sottovalutato, ma la colpa è della politica monetaria della Bce». Su quest’ultimo punto, tuttavia, nelle ultime ore i tedeschi hanno ammorbidito i toni e sono diventati più cauti nelle critiche all’istituto di Francoforte. Anche di questo hanno parlato ieri Angela Merkel e il presidente della Bce Mario Draghi.
La cancelliera ha intenzione di portare al G-20, oltre alla difesa del libero scambio, la lotta a eventuali guerre valutarie, che Trump ha già cercato di innescare dichiarando di volere un dollaro debole. C’è poi il delicato capitolo del cambiamento climatico. La Cina preme perché tutti e tre i punti vengano affrontati e diventino parte del comunicato finale ma sarà molto difficile trovare un modo per non entrare in rotta di collisione con gli Stati Uniti.
La Germania ha in questo momento bisogno come non mai di fare quadrato con i partner europei in una fase turbolenta che vede il passaggio più difficile nelle elezioni francesi (il primo turno sarà il 23 aprile, il ballottaggio il 7 maggio). I tedeschi sono particolarmente spaventati da una vittoria del partito anti-euro di Marine Le Pen. Per fare quadrato però Berlino deve andare incontro alle richieste dei partner Ue, anche ma non solo sullo squilibrio determinato dal suo enorme surplus.
Merkel non può aprire un confronto sul commercio con l’amministrazione americana e trascinarvi l’Unione europea senza l’impegno a “resituire” parte del surplus accumulato aumentando la quota di investimenti, pubblici e privati. Lo chiede Bruxelles da tempo, lo sottolineano anche gli economisti tedeschi. «I partner Ue trarrebbero grandi benefici da un aumento degli investimenti tedeschi – ha commentato Marcel Fratzscher dell’istituto Diw – ma soprattutto se ne avvantaggerebbe la Germania perché il gap negli investimenti e i surplus eccessivi non fanno bene all’economia». Le esportazioni, ha aggiunto l’economista, «non sono troppo alte ma sono basse le importazioni perché in Germania sono troppo bassi gli investimenti».

Roberta Miraglia

Il Sole 24 Ore, venerdì 10 febbraio 2017

Inflazione Ue, timori sui tassi

L’inflazione nella zona euro è tornata a correre e si sta avvicinando alla soglia per la stabilità dei prezzi che la Banca centrale europea si è posta come obiettivo: «Vicina ma inferiore al 2%». Il tasso di inflazione annuale a gennaio nell’eurozona — ha certificato ieri Eurostat — è atteso in netto rialzo all’1,8% rispetto all’1,1% di dicembre, trascinato dai prezzi dell’energia. Certamente la salute dell’eurozona è in netto miglioramento, ha ripreso a crescere e anche l’andamento dell’inflazione lo dimostra . In Germania è ormai vicina all’1,9%, in Spagna è volata al 3% annuale a gennaio, ai massimi da oltre quattro anni (a dicembre era dell’1,4%). E in Francia ha sì registrato un calo dello 0,2% nel primo mese del 2017 (comunque meglio delle attese degli analisti), ma su base annua l’incremento sarà dell’1,4%. In questo scenario si distingue l’Italia, che stima un +0,2% per il quarto trimestre 2016 e secondo Bankitalia va verso un +0,9% nell’intero 2016. A riprova che la ripresa nel nostro Paese resta fragile. Ad aprile la Bce rallenterà il quantitative easing dagli attuali 80 miliardi al mese a 60 miliardi, sino a fine anno. Ma ci sono i tedeschi, che andranno alle urne in autunno, in pressing sulla Banca centrale europea. E per l’Italia sarà un problema.

Francesca Basso

Corriere della SerA, 1 Febbraio 2017

 

Italia nel 2016 in deflazione, è la prima volta dal 1959

deflassL’Italia nell’insieme dello scorso anno è risultata in deflazione. È la prima volta che succede da oltre mezzo secolo. Nel 2016 i prezzi al consumo, secondo i dati provvisori dell’Istat, hanno registrato infatti una variazione negativa dello 0,1% come media d’anno. «È dal 1959 (quando la flessione fu pari a -0,4%) che non accadeva», rileva l’istituto di statistica.
La cosiddetta «inflazione di fondo», calcolata al netto degli alimentari freschi e dei prodotti energetici, rimane invece in territorio positivo (+0,5%), pur rallentando la crescita da +0,7% del 2015.

Obiettivo Bce mancato

La deflazione è il calo dei prezzi ed è il fenomeno opposto dell’inflazione, che si ha quando i prezzi salgono. La deflazione deriva da un rallentamento della spesa di consumatori e aziende e indica che la domanda di beni e servizi è debole e quindi che l’economia non è in salute. La Bce fissa come obiettivo dell’inflazione un livello vicino al 2 per cento.

Dicembre in positivo

Nel mese di dicembre 2016, secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, è salito dello 0,4% rispetto al mese precedente e dello 0,5% nei confronti di dicembre 2015. L’aumento su base mensile dè principalmente dovuto agli aumenti dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+1,9%), degli energetici non regolamentati (+1,1%), degli alimentari non lavorati (+1,0%) e dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,5%). I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona crescono dello 0,4% in termini congiunturali (su mese) e dello 0,6% in termini tendenziali (da -0,1% di novembre). I prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto aumentano dello 0,3% su base mensile e dell’1% su base annua (era +0,5% a novembre). L’inflazione nell’Eurozona sale all’1,1% annuale a dicembre, contro il +0,6% di novembre, al top dal dicembre 2013, emerge dalle prime stime flash di Eurostat. Gli analisti si aspettavano un incremento più contenuto dell’1%.

Il traino della benzina

«Il balzo dei prezzi nell’ultimo mese dell’anno è da attribuire unicamente al caro-benzina, con i distributori di carburanti che hanno fortemente rincarato i listini determinando aumenti in tutti i settori», sostiene Carlo Rienzi, presidente del Codacons, commentando i dati sull’inflazione diffusi oggi dall’Istat. «La frenata dei prezzi al dettaglio nel 2016 è il frutto del crollo record dei consumi registrato in Italia negli ultimi anni. L’attesa ripartenza della spesa da parte delle famiglie non si è verificata, e complessivamente negli ultimi 8 anni i consumi degli italiani sono calati di ben 80 miliardi di euro».

Fausta Chiesa

Corriere della Sera, 4 gennaio 2017

http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_04/italia-2016-deflazione-prima-volta-1959-46d27664-d265-11e6-af42-cccac9ae7941.shtml

La lunga crisi economica europea e la politica che non muove un dito

eurbruxDa Bruxelles, l’Italia ha ottenuto, pare, un po’ più di fiato sul bilancio, ma interpretare la concessione come un segnale in più che l’Europa si è lasciata alle spalle l’epoca dell’austerità è sbagliato. Il bollettino appena pubblicato dalla Bce spiega che il 2016 è un anno in cui, collettivamente, i governi europei, al contrario, hanno stretto la cinghia, con un taglio pari allo 0,5 per cento del Pil dell’eurozona. Non bruscolini: sono stati complessivamente drenati 500 miliardi di euro dall’economia. Nel 2017, andrà solo un poco meno peggio: un salasso di 2-300 miliardi. Qualcosa sarà ridato, poi, nel 2018 e 2019. In buona sostanza, nei prossimi tre anni la finanza pubblica registrerà un ruolo zero nell’economia dell’eurozona.

Visto che lo sviluppo è inchiodato ad un magro 1,6-1,7 per cento l’anno e che l’inflazione, ancora nel 2019, viaggerà su ritmi simili, uno si chiede in che bolla mentale viva la classe dirigente europea. Infatti, il bollettino della Bce reclama iniziative di spesa da parte di paesi come la Germania e l’Olanda, che hanno risorse da spendere. La Commissione di Juncker ha fatto un passo in più proponendo di rovesciare la tendenza, restituendo nel 2017 quello che è stato tolto nel 2016, con uno stimolo fiscale, pari allo 0,5 per cento del Pil europeo. Ma dai governi è venuto un secco “nein”. L’Europa continuerà a guardare alla propria economia, senza muovere un dito. Anche se la posizione di finanza pubblica “neutrale” (nessuno stimolo) come piace ai tedeschi, non significa impatto zero: perché, intanto, il conto corrente con l’estero dell’eurozona continua a muoversi a livello di attivi record, segno di un economia che, anche nel settore privato, complessivamente risparmia più di quanto investa.

Niente di tutto questo è una novità. Nella lunga crisi del progetto europeo, questo scontro totale e insormontabili fra rigoristi e no, questa interminabile paralisi decisionale e strategica che blocca ogni svolta decisa in un senso o nell’altro (a prescindere dai meriti delle due opzioni) rischia di avere un peso sempre più decisivo. Forse, infatti, lo scenario di un progetto europeo preso d’assalto da torme di populisti e da una demagogia da quattro soldi non riesce più a rappresentare tutta la realtà. Dubbi, riserve, paure, insofferenze sono assai più diffuse. Nei giorni scorsi, la Deutsche Bank, ovvero la più grossa e la più internazionale delle banche tedesche, ha diffuso un rapporto sui “Fondamenti del successo tedesco”. Firmato dai due massimi responsabili del servizio studi, il rapporto ha un tono trionfalistico e una pervicace sordità alle critiche al modello tedesco (tipo quelle di Draghi o Juncker) che può innervosire. Ma conta la conclusione: la Germania continua a trarre dall’euro più vantaggi che svantaggi. Senza moneta unica svanirebbero 1 miliardo di euro di crediti con gli altri paesi e bisognerebbe scontare una rivalutazione del 20-30 per cento di una nuova moneta nazionale. Però “l’assenza di aggiustamenti o sviluppi politici in altri paesi che mettessero in discussione le basi dell’intero progetto” potrebbero portare “ad un riesame a medio termine”.

Raramente era stato detto in modo così chiaro. C’è anche chi è più netto. Un sondaggio dell’Ifo poneva la domanda (probabilmente non casuale) “l’Italia resterà nell’euro?” a cento economisti tedeschi, non politici usciti dal nulla, ma professori universitari. La maggioranza è contraria ad una uscita dell’Italia dalla moneta unica, una ancora più grande ne teme gli effetti negativi e, comunque, la ritiene improbabile. Quello che colpisce, però, sono i numeri. Il 26 per cento di questi professori ritiene l’uscita dell’Italia un evento probabile e il 30 per cento lo considera auspicabile. Per l’interesse dell’Italia, peraltro: più del 60 per cento pensa che il nostro paese ci guadagnerebbe a giocare in un campionato più adatto alle sue potenzialità.
Maurizio Ricci

La Repubblica, 24 dicembre 2016

Si crescerà meno del previsto

cresssL’Italia nel 2016 crescerà molto meno del previsto. A gelare le speranze del nostro Paese sono le nuove previsioni dell’Ocse, che ha sensibilmente ritoccato al ribasso le stime di crescita per l’anno in corso. Il Pil dovrebbe crescere – secondo l’organizzazione con sede a Parigi – soltanto dell’1%, meno dell’1,4% previsto a novembre e nettamente meno dell’1,6% inserito dal governo nella nota di aggiornamento al Def.

Una revisione al ribasso che riguarda l’intera economia mondiale, la cui crescita è stata rivista al ribasso al 3% per il 2016 e 3,3% per il 2017, 0,3 punti in meno dell’outlook di novembre.

Per l’Eurozona si stima un’espansione dell’1,4% nel 2016 e dell’1,7% nel 2017 (+1,8% e +1,9% secondo le stime di novembre dopo un +1,5% nel 2015), mentre gli Usa si confermano in forma più robusta, sia pur in ripiegamento: +2% nel 2016 e +2,2% nel 2017 (+2,5% e +2,4% a novembre) dopo un +2,4% nel 2015. Se la cava anche il Regno Unito: +2,1% nel 2016 e +2% nel 2017 (+2,4% e +2,3% secondo le stime di novembre) dopo un +2,2% nel 2015. Il Giappone rimane invece un pò in affanno: +0,8% quest’anno e +0,6% l’anno venturo (+1% e +0,5% secondo le stime di novembre) dopo un +0,4% nel 2015.

Per quanto riguarda le principali economie dell’Eurozona, la revisione al ribasso più dura spetta alla Germania: +1,3% nel 2016 e +1,7% nel 2017 (i dati di novembre prevedevano un +1,8% nel 2016 e un +2% nel 2017) dopo un +1,4% nel 2015. Regge bene, invece, la Francia che, dopo un’espansione dell’1,1% lo scorso anno, è vista in crescita dell’1,2% nel 2016 e dell’1,5% nel 2017, in entrambi i casi un taglio delle stime di appena lo 0,1%.

http://www.huffingtonpost.it/2016/02/18/ocse-stime-pil_n_9261086.html

 

http://www.oecd.org/

 

 

Cresce (ma a rilento) l’occupazione in Europa

JOPPPL’occupazione in Europa cresce ma lentamente mentre l’Italia si piazza sopra la media Ue.

L’Eurostat certifica che continua la lenta ripresa dei posti di lavoro: nel terzo trimestre di quest’anno è aumentata nell’Eurozona dello 0,3% rispetto al periodo immediatamente precedente, mentre il progresso registrato nell’Ue a 28 paesi è pari allo 0,4%. In entrambi i casi, il numero di occupati (229,8 milioni di persone di cui 151,5 nei paesi con la moneta unica) è cresciuto rispetto allo stesso trimestre del 2014 dell’1,1%. Aumento trimestrale sopra la media per l’Italia (+0,4%) che arriva così a una crescita degli occupati dello 0,9% in un anno. 

Il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker avverte che la crisi non è finita. «Dal mio punto di vista, la crisi non è finita», afferma davanti al parlamento europeo, riunito in sessione plenaria a Strasburgo per ascoltare le sue considerazioni sul futuro dell’Eurozona. «Bisogna andare avanti con la nostra agenda di riforme e investimenti» e «dare più legittimità e forza alle istituzioni comuni», aggiunge. Infatti, osserva durante il suo intervento, «molte persone restano senza lavoro e la ripresa è ancora fragile». Secondo Juncker, «il parlamento europeo è il parlamento dell’Euro, che è un progetto politico e ha bisogno di una vigilanza politica di responsabilità politica».

La Stampa

15 dicembre 2015

 

https://www.lastampa.it/2015/12/15/economia/cresce-loccupazione-in-europa-a-novembre-77dQu7dEarkKUcpkT2fFnJ/pagina.html

 

Ripresa più lenta del previsto

bceeeeLa ripresa continuerà, ma “ad un ritmo più lento rispetto a quanto previsto in precedenza”. La prognosi è di Mario Draghi, che ha parlato dopo la prima riunione del Consiglio della Banca centrale europea dopo la pausa estiva. E, come i mercati si aspettavano, oltre a lasciare invariato al minimo storico (0,05%) il costo del denaro ha annunciato che alla luce della frenata Francoforte, se sarà necessario, è pronta a prolungare “anche oltre” il settembre 2016 il cosiddetto quantitative easing. Cioè il programma di acquisto di titoli di Stato per un valore di 60 miliardi di euro al mese avviato nel marzo scorso con l’obiettivo di far salire l’inflazione, allentare la stretta creditizia e in ultima analisi rilanciare la crescita economica dell’Eurozona. Traguardi che si stanno allontanando a causa del rallentamento della Cina, che da settimane spaventa gli investitori.

Le stime dello staff della Bce sulla crescita del Pil per il 2015 sono state infatti riviste al ribasso: la crescita, a livello di area euro, dovrebbe fermarsi all’1,4%, contro il +1,5% prefigurato fino a due mesi fa, per poi salire all’1,7% (contro il +1,9% della precedente stima) il prossimo anno e all’1,8% nel 2017. E anche la crescita del livello dei prezzi, parametro fondamentale per valutare l’efficacia del quantitative easing, non sarà in linea con le attese: nel 2016 è vista all’1,1% dall’1,5%, quella per il 2017 è tagliata all’1,7% dall’1,8%. Per quest’anno la stima è tagliata allo 0,1% dallo 0,3%. E “ci sono rischi al ribasso”. ….

http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/09/03/bce-draghi-ripresa-piu-lenta-del-previsto-pronti-a-prolungare-acquisto-titoli-di-stato/2005676/

Quel conflitto tra democrazie che ancora divide l’Europa

gtritoGli dei fanno prima impazzire coloro che vogliono distruggere. In questo caso li fanno annoiare. I vertici dell’eurozona sulla Grecia si moltiplicano, ogni volta annunciati come “l’ultima occasione” e gli europei ormai sono quasi in preda alla narcolessia. Sonnecchiamo sul sedile del passeggero anche mentre l’auto cade nel burrone. Ma non c’è niente da fare. Se i capi di governo dell’Ue non trovano una via d’uscita in occasione del vertice di emergenza convocato per questa domenica, il prossimo lunedì il progetto di integrazione europea potrebbe iniziare a disfarsi. Se pensate che in gioco ci sia solo il futuro della Grecia, be’, pensateci due volte.

Il problema è che la cronica incapacità dell’Eurozona di fare qualcosa che non sia tirare a campare non è semplicemente frutto di politiche sbagliate e di una leadership debole, che abbondano da ogni parte, governo greco, governo tedesco e istituzioni europee e internazionali inclusi. Ma le cause sono ben più profonde, radicate nella debolezza strutturale del progetto europeo già decenni fa. La maggioranza dei politici responsabili di queste debolezze ormai sono morti o vivono un’arzilla terza età. Sotto molti aspetti i leader di oggi sono intrappolati nella logica perversa delle istituzioni create dai loro predecessori. Sarà necessario uno straordinario balzo di coraggio e creatività per superarlo.
Se mi chiedete chi sono i due primi responsabili della crisi dell’Eurozona di cui la Grecia è solo la manifestazione più estrema, vi direi l’ex presidente francese François Mitterrand e Giulio Andreotti. Furono loro due che, subito dopo la caduta del muro di Berlino, costrinsero il cancelliere Helmut Kohl ad accettare il programma che avrebbe portato all’unione monetaria europea, offrendo in cambio, obtorto collo, il sostegno all’unificazione tedesca, ma senza accettare l’unione fiscale necessaria al funzionamento della moneta unica. «La storia recente, non solo in Germania», disse Kohl dall’alto del suo sapere, «c’insegna che è assurdo attendersi di poter mantenere nel lungo periodo l’unione economica e monetaria in assenza di unione politica». Come aveva ragione!
Questo non è che uno dei tanti peccati originali dell’eurozona. La Francia e l’Italia chiesero l’impegno nei confronti della moneta unica, ma fu la Germania a scrivere gran parte delle regole – ed erano regole tedesche, improntate all’ossessione della lotta all’inflazione e studiate per gli scenari macroeconomici di un’epoca diversa. Dato che si trattava soprattutto di un progetto politico e Francia e Italia dovevano essere parte dell’Eurozona fin dall’inizio, si ebbe una sorta di effetto domino al contrario. Se l’Italia era dentro, allora doveva entrare anche la Spagna, e poi il Portogallo e via così fino alla Grecia, uno stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione. La Grecia non avrebbe mai dovuto aderire all’unione monetaria che, a sua volta, non sarebbe dovuta partire, neppure limitatamente a un gruppo più ristretto di economie compatibili, almeno fino a che non si fossero affrontati i peccati originali strutturali.
Il vecchio re Kohl sperava che, come era più volte accaduto nell’Europa post 1945, l’integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. Con lo svanire della memoria della guerra, dell’occupazione e della dittatura l’opinione pubblica in tutto il continente – non da ultimo nella stessa Germania – ha sviluppato un atteggiamento più pragmatico, scettico o del tutto disincantato riguardo al progetto europeo. La soluzione proposta per sanare il cosiddetto deficit democratico dell’Ue, ossia conferire maggiori poteri al parlamento europeo a elezione diretta, quindi presentare Spitzenkandidaten, candidati alla presidenza della Commissione Europea scelti dai partiti, non ha funzionato. Molte volte negli ultimi mesi ho chiesto a platee di persone andate alle urne se avessero intenzionalmente votato per uno degli Spitzenkandidaten e quasi nessuno ha risposto di sì. La teoria è una cosa, la pratica un’altra.
Quindi qualunque opinione abbiate del comportamento di Alexis Tsipras Alexis Tsipras, non ha senso far finta che Jean-Claude Juncker goda di una legittimazione democratica europea maggiore in confronto al primo ministro greco. La realtà della democrazia europea resta nazionale: la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a quando ho iniziato a studiare e a girare l’Europa 40 anni fa. Esistono pubblicazioni dirette a un pubblico ridotto e colto in tutto il continente, ma la maggior parte della gente in Europa si ferma ai media nazionali, anche quando la lingua è comune. A Vienna mi hanno spiegato quanto sia diverso il tono con cui i media austriaci trattano l’argomento Grecia rispetto ai media tedeschi.
Quindi non esiste una sola Grecia, bensì 28 grecie diverse, a seconda del paese in cui siete. La grecia estone o lituana sarebbe pressoché irriconoscibile agli occhi degli italiani, figuriamoci dei greci. Analogamente non c’è una sola Germania bensì 28 – e pochi tedeschi riconoscerebbero il proprio paese nella “Germania” dei quotidiani greci. Queste narrazioni in netto contrasto sono alimentate dai politici di ogni paese che emergono da ogni vertice di Bruxelles strombazzando i loro successi e attribuendo ogni partita persa ad altri governi o alle malefiche istituzioni europee. Il ministro degli esteri belga ha ironizzato sul fatto di essere l’unico a non poter dare la colpa a Bruxelles (perché è anche la sede del suo governo).
John Stuart Mill ha scritto che l’unità dell’opinione pubblica necessaria al funzionamento del governo rappresentativo non può aversi tra gente che manca di senso di comunità, soprattutto se si parlano lingue diverse. L’Europa non l’ha ancora smentito. Nelle scorse sei settimane sono stato in sei paesi diversi riscontrando dolorosamente l’assenza, tra di loro, di un senso di comunità. Contrapporre la democrazia alla tecnocrazia è ormai un cliché. Purtroppo la verità è ancora più amara, perché nell’Eurozona è presente il peggio di entrambi i termini. Istituzioni come la Commissione Europea e l’Fmi mostrano alcune delle pecche (nonché delle virtù) della tecnocrazia, inclusa la tendenza ad aderire a ortodossie irrealistiche, a un’economia a taglia unica.
Ma se parliamo dei leader europei allora lo scontro è tra democrazia e democrazia. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato “la vittoria della democrazia” le Termopili rivisitate e corrette in modello agitprop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras e egualmente soggetto ai limiti imposti dall’interesse nazionale e (cosa spesso più importante) dalle emozioni nazionali. Così i 28 leader che si riuniscono a Bruxelles domenica assieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori andando oltre l’ortodossia dei tecnocrati e negoziando un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia, ma l’intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancor più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos , l’oppotunità di azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito.

Quel conflitto tra democrazie che ancora divide l’Europa


Traduzione di Emilia Benghi

With 28 versions of Europe, it’s no wonder we barely recognise each other

Whom the gods will destroy they first make bored. We have seen so many “last chance” eurozone summits about Greece that many Europeans have almost lost consciousness. We doze in the passenger seat even as the car goes over the cliff.But this is it. If the EU’s heads of government don’t find a way forward at their emergency summit this Sunday, then on Monday a 70-year-old project of European integration may start to unravel. If you think it’s just the future of Greece that’s at stake, think again…..

 

 

Le previsioni del Fondo monetario

 

sferLe prospettive di crescita per l’anno in corso rimangono sostanzialmente invariate, secondo le previsioni che il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha appena divulgato a Washington. L’economia mondiale crescerà del 3,5 per cento come previsto dalla medesima istituzione lo scorso gennaio.

Il complesso delle economie avanzate dovrebbe registrare un tasso di espansione del 2,4 per cento, riflettendo il ridimensionamento della crescita dell’economia americana (dal 3,1 previsto lo scorso gennaio al 2,5) compensato in parte da una maggiore crescita dell’Eurozona pari all’1,5 per cento (contro l’1,2 di gennaio).

Nell’Eurozona, i paesi core sospingono la ripresa con Germania e Francia che crescono dell’1,6 e dell’1,2 per cento rispettivamente, un aumento di quasi un terzo di punto percentuale rispetto allo scorso esercizio previsionale. Per l’Italia, le previsioni parlano di una crescita dello 0,5 per cento, un decimale in più di quanto ci si attendeva a gennaio.

Ma è la Spagna a confermarsi l’elemento di sorpresa nell’Eurozona, con un tasso previsto di espansione pari al 2,5 per cento, in rialzo di mezzo punto dallo scorso esercizio previsionale, sospinto da una favorevole dinamica del mercato del lavoro, dalle esportazioni trainate dal deprezzamento dell’euro e, infine, da un miglioramento dell’accesso al credito facilitato dalle politiche di Quantitative easing (o allentamento quantitativo) della Banca centrale europea.

Tra le economie emergenti, in Asia le previsioni per la Cina rimangono stabili al 6,8 per cento, mentre l’India registra una sorpresa positiva con un tasso di crescita in aumento al 7,5 per cento. Alla sostenuta dinamica dei giganti asiatici, si contrappongono le previsioni meno favorevoli di Russia e Brasile, il cui pil dovrebbe contrarsi, rispettivamente, del 3,8 e dell’1,1 per cento nell’anno in corso.

Eppure, a fronte della dinamica sostanzialmente invariata rispetto al precedente ciclo previsivo, le analisi dell’istituzione multilaterale rivelano un persistente deterioramento del tasso di crescita potenziale dell’economia mondiale negli anni a venire. Per le economie avanzate, la compressione del tasso potenziale era evidente già prima della crisi; l’eruzione di quest’ultima ha finito dunque con l’accentuare la dinamica già in atto. L’invecchiamento della popolazione, la caduta nella spesa degli investimenti e, durante la crisi, il deterioramento della situazione occupazionale hanno determinato tale ridimensionamento delle prospettive di crescita nel medio periodo rispetto al contesto pre-crisi. Per le economie emergenti, inoltre, si va attenuando l’elemento propulsivo che ne ha sospinto sinora la convergenza verso le economie avanzate.

La risposta, secondo l’istituzione di Washington, consiste nel sostenere la domanda aggregata nel breve periodo sfruttando tutti gli elementi di flessibilità disponibili, per esempio con politiche monetarie nell’Eurozona in cui l’inflazione dovrebbe rimanere sotto il 2 per cento fino al 2020. Allo stesso tempo, il Fmi raccomanda un aumento degli investimenti, infrastrutturali e in ricerca e sviluppo, per espandere l’offerta aggregata. L’Italia è il fanalino di coda: gli investimenti in ricerca e sviluppo sono tra i più bassi tra le economie dell’Eurozona sia rispetto al pil sia come numero di addetti rispetto al totale degli occupati. Nel complesso, le analisi del Fmi aggiungono ulteriore urgenza alla necessità di introdurre riforme strutturali per dare più slancio alla crescita che, in Italia, vuole anche dire sostenibilità di un’enorme massa di debito pubblico che a febbraio, secondo la Banca d’Italia, ha raggiunto la nuova cifra record di 2.169,2 miliardi.

Magre consolazioni sul pil e una lunga lista di consigli. Il Fmi sull’Italia<!– –>

di Domenico Lombardi | 15 Aprile 2015 | Il Foglio

http://www.ilfoglio.it/economia/2015/04/15/pil-italia-magre-consolazioni-e-una-lunga-lista-di-consigli-il-fmi___1-v-127795-rubriche_c283.htm

Più coraggio negli ideali della Ue

Greek-Invischiati nella crisi greca, i policy-maker europei dovranno presto fare un passo indietro e riflettere sulla questione più ampia del futuro dell’Eurozona. Prima di prevedere un’uscita o, al contrario, un’ulteriore integrazione, vale la pena valutare le conseguenze di ciascuna opzione Semplificando, si potrebbe dire che ci sono due strategie per gestire l’Eurozona: quella attuale, che si basa sul Trattato di Maastricht del 1992 e sull’aggiornamento del Fiscal Compact del 2012, ed una più ambiziosa alternativa federalista. Il federalismo sarebbe la configurazione che preferisco, ma non sono convinto che gli Europei siano pronti per fare ciò che è necessario per farlo funzionare.

L’approccio di Maastricht opera un superamento della sovranità statale soltanto attraverso il monitoraggio del deficit e del debito pubblico. I padri fondatori temevano, in modo lungimirante, che il default incombente di un particolare stato avrebbe potuto innescare un bail-out: perciò il Trattato di Maastricht ha previsto sia una soglia per il debito, sia una clausola che vietava il bail-out (“no bail-out clause)

La solidarietà verso un Paese in difficoltà è dettata dal timore che spillover provenienti dal default dello Stato in difficoltà incidano negativamente sui suoi soccorritori. Le esternalità negative che hanno origine dal default possono essere di natura economica (riduzione del commercio, rischi per gli intermediari e le banche, fughe di capitale verso altri Paesi) o di natura non economica (empatia, rischi per la costruzione europea, turbolenze diplomatiche da parte dello Stato in difficoltà)

La prospettiva di un bail-out può a sua volta generare azzardo morale; nell’ultimo decennio, i bassi tassi di interesse connessi alla possibilità di bail-out, hanno consentito ai Paesi periferici di procedere su rotte insostenibili.

L’approccio di Maastricht finora ha fallito. Per capirne il motivo, consideriamo i quattro ostacoli che ha di fronte: uniformità, complessità, attuabilità e solidarietà limitata. Temendo accuse di discriminazione, l’Europa ha definito parametri identici per tutti i Paesi, come se fossero un numero magico per la sostenibilità del debito.

Tuttavia, l’uniformità non ha basi teoriche al di fuori della sua trasparenza per i cittadini d’Europa: un debito al 40% può essere insostenibile per uno Stato, mentre un altro può sopportare un debito al 120%. Dipende tutto da una serie di fattori: la sostenibilità del debito di uno Stato può ad esempio essere favorita da una maggior capacità di riscuotere le tasse e di sostenere un aumento della base imponibile, da tassi di crescita più alti, da un aumento dell’influenza politica di quella parte di elettorato che avrebbe più da perdere da un default, o dalla quota del debito detenuta dai residenti (gli Stati non amano scaricare il default sui propri cittadini o sulle proprie banche).

La complessità si riferisce alla difficoltà di misurare l’indebitamento effettivo di uno Stato (…)

Sul fronte dell’attuabilità, i ministri delle finanze dell’Eurozona hanno fallito nel sanzionare le numerose violazioni del Patto di Stabilità e Crescita. Questo non dovrebbe sorprendere. (…)

L’approccio federalista, di cui sono un sostenitore, implica sostanzialmente più risk-sharing. Gli Eurobond renderebbero i Paesi europei collettivamente responsabili dei debiti sovrani. Un bilancio comune, una assicurazione europea sui depositi e sussidi comunitari di disoccupazione agirebbero come stabilizzatori automatici, offrendo molta più protezione agli Stati e rendendo la politica di no bail-out più credibile (gli stabilizzatori riducono le giustificazioni per le cattive performance fiscali); a questo riguardo, giova ricordare che il governo federale degli Stati Uniti smise di fare salvataggi fiscali dei singoli Stati Usa attorno al 1840.

Più coraggio negli ideali della Ue

Di Jean Tirole

Sole 24 ore 19 marzo 2015

L’economista francese Jean Tirole ha vinto il Premio Nobel per l’Economia nel 2014

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2015-03-19/piu-coraggio-ideali-ue-082109.shtml?uuid=ABfhcjBD&p=2

DIZIONARIO

Bail – out  Salvataggio di un’istituzione che si trovi in uno stato di insolvenza. Possono essere altri Stati, insieme a istituzioni quali il FMI, a prestare fondi a uno Stato che abbia difficoltà a finanziarsi sul mercato privato, al fine di evitare il suo default. Questo è ciò che è avvenuto in Europa nel 2010-11 con i piani di assistenza a favore di Grecia, Irlanda e Portogallo. Tali interventi pongono un delicato problema sul piano legale, per l’esistenza della no bail-out  clause nel Trattato sull’Unione Europea  Trattato di Maastricht), secondo la quale ciascuno Stato dell’area euro non dovrebbe essere oggetto di salvataggio da parte degli altri Stati membri.

Spillover  Il termine è usato  per indicare la diffusione di situazioni di squilibrio da un mercato all’altro.