POCO PENSIERO E TROPPE IMMAGINI CANCELLANO I CONCETTI

giesseNei miei scritti giovanili sulla democrazia usavo ancora le categorie di Immanuel Kant, per il quale i sistemi democratici non potevano esistere senza ideali, senza un «dover essere», intendendo un dover essere irrealizzabile, ma pur sempre alimento essenziale di una democrazia. Più tardi mi sono imbattuto in Isaiah Berlin e ne ho adottato le dizioni: «libertà negativa» e «libertà positiva». Ma nemmeno queste dizioni mi convincevano del tutto, perché la libertà positiva di Berlin sdoganava il «perfezionismo democratico» che avevo sempre combattuto, e il cui inevitabile esito ho sempre ritenuto fosse il fallimento. Così, nei miei scritti più recenti la mia dizione è diventata, da un lato, «democrazia e/o libertà protettiva» o «democrazia e/o libertà difensiva» e, dall’altro, «democrazia e/o libertà distributiva».

 Dalla caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476, il suo territorio fu gestito, salvo alcune eccezioni, da vari aggregati di pretoriani. Successivamente, nell’Alto Medioevo, la nostra civiltà si racchiuse nei monasteri fortificati, nei quali tutto il potere era affidato al Superiore. Il Basso Medioevo, tra l’XI e il XV secolo, vide lo sviluppo delle città marinare, fermo restando che anche lì la politica era un dominio riservato.

 Fino a quel momento si era sempre dato per scontato che il potere politico fosse interamente e senza alcun vincolo nelle mani dei re e del loro séguito di principi, duchi, marchesi e signorotti. Il sovrano poteva a suo piacimento imprigionare chi voleva. Insomma, la politica era soltanto forza: la forza di chi era o diventava il più forte. Gli Stati passavano di mano in mano con le guerre, con le alleanze tra i potenti del momento e con i matrimoni.

 Il punto è, quindi, che solo da una manciata di secoli noi cittadini abbiamo uno Stato che non è semplicemente la forza del più forte. Quando è accaduto? Quando è iniziato lo Stato come lo conosciamo oggi? Direi dalla fine del Seicento con John Locke e ai primi dell’Ottocento con Benjamin Constant. In seguito vi furono le rivoluzioni del 1830, che ebbero come conseguenza gli statuti, le Carte che i vari sovrani furono costretti a concedere.

 E il testo che segna l’avvento e definisce la struttura dello Stato come noi oggi lo conosciamo fu De la Liberté des Anciens comparée à celle des Modernes , che contiene il celebre discorso pronunciato da Constant nel 1819, nel quale vengono contrapposti due diversi concetti di libertà: una praticata dagli antichi e l’altra presente nelle società moderne.

 Insomma, la politica è stata la forza a discrezione del più potente, finché non è stata inventata la liberal-democrazia, che è, ecco il punto, il prodotto di un pensiero astratto che capisce senza vedere, diciamo a occhi chiusi.

 L’ homo sapiens deve tutto il suo sapere alla capacità di astrazione. Le parole che articolano il linguaggio umano sono simboli che evocano anche «rappresentazioni», e cioè richiamano alla mente raffigurazioni, immagini di cose visibili e che abbiamo visto. Ma questo accade soltanto con i nomi propri e con le «parole concrete» (dico così per semplicità espositiva), e cioè con parole come casa , letto , tavola , carne , gatto , moglie e simili; il nostro vocabolario, diciamo, pratico.

 Altrimenti, quasi tutto il nostro vocabolario conoscitivo e teoretico consiste di «parole astratte», che non hanno nessun preciso corrispettivo in cose visibili e il cui significato non è riconducibile a — né traducibile in — immagini. Città è ancora «visibile», ma nazione , Stato , sovranità , democrazia , rappresentanza , burocrazia non lo sono: sono concetti astratti, che designano entità costruite dalla nostra mente.

 I cosiddetti «primitivi» sono tali perché nel loro linguaggio primeggiano (fabulazione a parte) le parole concrete, il che dà comunicazione, ma pochissime capacità scientifico-conoscitive. E, di fatto, i primitivi sono fermi da millenni al piccolo villaggio e all’organizzazione tribale. Per contro, i popoli avanzati sono tali perché hanno acquisito un linguaggio astratto — che è anche un linguaggio a costruzione logica — che consente la conoscenza analitico-scientifica. Intendiamoci, alcune parole astratte (non tutte) sono traducibili in immagini, ma si tratta sempre di traduzioni che sono soltanto un surrogato infedele e impoverito del concetto che cercano di «visibilizzare».

 Dunque, e in sintesi: tutto il sapere dell’ homo sapiens si sviluppa nella sfera di un mundus intelligibilis (di concetti, di costrutti mentali) che non è percepito dai sensi. E il punto è questo: la televisione inverte il progredire dal sensibile all’intelligibile e lo rovescia in un ritorno al puro e semplice vedere. La televisione e Internet producono immagini e cancellano i concetti, ma così atrofizzano la capacità di capire.

 Ritorniamo alla diade originaria di libertà negativa e libertà positiva, che avevo abbandonato sostituendola con libertà difensiva e libertà distributiva. Quest’ultima, caduta l’ideologia marxista, è attualmente travestita da comodo «globalismo». Per questo, oggi insisto sempre più sulla nozione di «libertà protettiva» o «libertà difensiva».

La partita sarebbe perduta se la libertà protettiva non si fondasse sul principio dell’ habeas corpus , intelligibile anche per l’ homo videns di oggi, visto che l’immagine è trasparente anche in gergo infantile: « Hai diritto al tuo corpo ». Il che equivale a dire che nessuno ne può disporre «contro la tua volontà e senza il tuo consenso». È il solo diritto solitario, tutto sommato, di cui disponiamo. La mia libertà è condizionata, in vita, dalla libertà dell’altro e deve rispettare la libertà altrui (e viceversa, s’intende). Ma, in morte, dobbiamo essere liberi di morire come vogliamo.

 Dunque, la politica è stata una forza a discrezione del più potente (del momento) finché non è stata inventata la liberaldemocrazia. Che, insisto, è il prodotto del pensiero astratto. La partita non è perduta se sapremo contrapporre all’appetito crescente della democrazia distributiva e alla sempre più gonfiata retorica che l’accompagna la democrazia protettiva dell’ habeas corpus .

 Anticipazione da “La corsa verso il nulla” di Giovanni Sartori, pubblicata dal Corriere della Sera 28 giugno 2015

Il «Discorso sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni»

Benjamin Constant http://www.cislscuolalazio.it/contenuti/2014/constant_liberta_11.pdf

Una legge, 25 mila parole

maxiemChe c’è in comune fra la Buona Scuola e l’Italicum ? E fra quest’ultimo e il Jobs act, la legge Delrio sulle Province, quella di Stabilità? Semplice: sono tutte figlie d’un maxiemendamento, sul quale cade poi come una scure il voto di fiducia. E almeno in questo, Renzi non si distingue dai suoi predecessori. Hanno maxiemendato Prodi (cui si deve il record di 1.365 commi stipati in un solo articolo di legge), Berlusconi, Monti, Letta. Sempre aggiungendo al testo un’invocazione amorosa al Parlamento, che Renzi ha ripetuto 30 volte (in media ogni 12 giorni) durante il suo primo anno di governo. «Ti fidi di me, mi vuoi ancora bene? Dimmelo di nuovo, giurami fiducia».

È la legge non scritta della Seconda Repubblica: se vuoi incassare una riforma, devi violentarne la forma. Nel caso della scuola, questa maschera deforme comprende 209 commi, che s’allungano per 25 mila parole. Neppure Samuel Beckett, con le sue frasi che riempivano una pagina, avrebbe osato tanto. Si dirà: una legge non è un romanzo, dobbiamo misurarne la sostanza, non lo stile.

 Vero, ma fino a un certo punto. Intanto, sui contenuti la riforma è in chiaroscuro, altrimenti non avrebbe innescato una valanga di proteste. Restano elementi critici sull’offerta formativa, sui poteri del preside-sceriffo (decide lui chi assumere), sul finanziamento alle scuole private (vietato dalla Costituzione). Dopo di che non mancano i progressi: maggiore autonomia, stabilizzazione dei precari, aiuti alle scuole disagiate, processi di valutazione dei dirigenti e dei docenti . Restano chiaroscuri anche sul maxiemendamento, rispetto al testo originario. Quanto al piano d’assunzioni, per esempio, è in chiaro il reclutamento degli idonei usciti dall’ultimo concorso, è in scuro il rinvio della pianta organica al 2016.

Niente di nuovo, succede con ogni maxiemendamento. Perché il suo primo effetto è di trasformare il Parlamento in organo consultivo del governo: quest’ultimo ascolta quanto hanno da dire gli onorevoli colleghi, leggiucchia le loro proposte di modifica, poi sceglie petalo da petalo, e li incarta in una rosa che ha per spina la fiducia. Sequestrando la libertà dei parlamentari, messi davanti a un prendere (la legge) o lasciare (la poltrona). Sommando su di sé il potere esecutivo e quello legislativo, specie se il testo contiene 9 deleghe al governo, come accade per la Buona Scuola. E sfidando infine il paradosso, la contorsione logica. Il maxiemendamento, difatti, è un autoemendamento, quando interviene su un progetto confezionato dallo stesso Consiglio dei ministri. Mentre emenda, il governo fa ammenda. Ma l’ammenda non corregge i difetti originari: viceversa li moltiplica, giacché converte l’atto normativo in arzigogolo, che poi ciascuno interpreterà come gli pare, come gli fa più comodo.

Così, fra questi 209 commi che si succedono senza uno straccio di titolo per orientarne la lettura, fa capolino il comma 49, che introduce la lettera b-bis . Seguito a debita distanza dal comma 166, che a sua volta aggiunge il comma 2- octies . Mentre il comma 178 si divide in 9 lettere; la lettera b in 8 punti; il punto 3 in 4 sottopunti. Senza dire del comma 74, a proposito degli insegnanti di sostegno: un delirio di rinvii normativi, 23 numeri in 84 parole. Sarà per questo che l’Italia è fanalino di coda nella classifica che misura la qualità della legislazione, 63 gradini in giù rispetto alla Germania. Sarà per questo che l’indice Doing Business 2015 ci situa al 56º posto, dietro a tutte le principali economie. Con leggi così l’imprenditore, il lavoratore, e da domani pure lo studente, rimangono giocoforza ostaggio del burocrate. Il maxiemendamento è un campo di concentramento. 

Michele Ainis

Corriere della Sera

Piena occupazione, ritorno al futuro

occuppp Ci sono dati a cui non ci si può e non ci si deve abituare. Ancora oggi, in Europa, a sette anni dall’inizio della crisi, il tasso di disoccupazione rimane superiore al dieci per cento, con punte che in talune aeree e categorie (tra cui i giovani) superano il venti. Senza contare gli scoraggiati usciti dal mercato del lavoro e il diffuso peggioramento delle condizioni di chi riesce a lavorare.

Nel secondo dopoguerra, J. M. Keynes si battè affinché la piena occupazione costituisse l’obiettivo di fondo della politica economica dei Paesi occidentali. Nella convinzione che economia e democrazia si tengono necessariamente la mano. Sono quasi trent’anni che un tale obiettivo è sparito dall’agenda dei governi. E, dopo sette anni di crisi, una decisa virata ancora non si vede: le istituzioni centrali — specie quelle europee — continuano a considerare gli obiettivi di controllo dell’inflazione il criterio della loro azione. Non sta forse in questa paradossale inversione la ragione dei nostri problemi?

  I rapporti di forza interni all’Unione e la distanza abissale tra le classi dirigenti e la vita reale delle persone ci bloccano in questo stallo. Il risultato è quello che vediamo: molti dei sistemi politici europei, senza più alcuna distinzione tra destra e sinistra, sembrano fortini assediati con coalizioni di governo, elettoralmente fragili, asserragliate nel Palazzo. Mentre nelle piazze rumoreggiamo populismi di varia natura.

Eppure, ancora non si vede il superamento di un modello che compensava i propri squilibri attraverso la sua stessa malattia (l’aumento del debito pubblico e privato).

Le vie canoniche per combattere la disoccupazione sono due.

La prima dice: più crescita. Giusto. A condizione di non dimenticare che con i livelli di disoccupazione raggiunti e la velocità con cui si procede (ammesso e non concesso che il segno più si stabilizzi), il processo di riassorbimento richiede anni. Ma il tempo, nella vita delle persone, non è variabile neutra. Tanto più che l’allargamento della forbice tra produttività del lavoro, prodotto interno lordo, occupazione e le tendenze nella concentrazione della ricchezza fanno sì che l’effettivo aumento dei posti di lavoro sia tutto da confermare. Per questo, dire che la risposta al problema è la crescita non basta.

La seconda dice: più investimenti. Privati, ma sopratutto pubblici. Anche questo secondo argomento è corretto. Ma, sul fronte privato, gli investimenti sono fiacchi da anni sia perché le aspettative di profitto sono basse (dove sono i settori in cui si può pensare di guadagnare?) sia perché l’enorme mercato finanziario è un mostro a due teste che, mentre genera risorse, le inghiotte. Senza contare che gli investimenti non vanno là dove ci sono i problemi più pressanti (leggi il nostro Mezzogiorno o i giovani senza esperienza). E per quanto riguarda gli investimenti pubblici — la cui spinta nell’era della globalizzazione è più debole che in passato — essi dipendono dalla esistenza di uno Stato forte. Condizione che, almeno in Europa, non c’è.

E allora? Se vogliamo essere intellettualmente onesti, occorre ammettere che, senza una diversa prospettiva, il riassorbimento dell’occupazione resterà una chimera. Almeno in quei Paesi dove la crisi ha desertificato persone e territori.

Come non si stanca di ripetere Mario Draghi, una politica monetaria espansiva ha senso solo per prendere tempo e fare le riforme. Giusto. Ma sia la stessa politica monetaria sia le riforme avranno effetti diversi a seconda degli obiettivi perseguiti (piena occupazione vs stabilità monetaria).

Nella situazione in cui siamo, l’errore sta nel continuare a considerare efficienza economica e coesione sociale come obiettivi divergenti. Cosa che dopo il 2008 non è più vera.

Al contrario, ci sono molti segnali che dicono che oggi la relazione tra efficienza e coesione torna a essere positiva: sappiamo che questo vale per le imprese che operano sui mercati internazionali, per le quali la manodopera, ma anche la scuola o le infrastrutturale logistiche, sono condizioni per essere competitive; per il tenore generale dell’economia domestica, che può davvero riprendersi solo grazie ad un’azione di corretta redistribuzione delle risorse; per lo sviluppo di settori nuovi — quali il digitale, la sanità, i servizi alla persona, la qualità del territorio e dell’ambiente — che possono svilupparsi solo condividendo le stesse priorità; per la stessa Europa che, se avesse il coraggio mostrato nel secondo dopoguerra, potrebbe fare dei propri squilibri la leva su cui far ripartire l’economia interna, finanziando con i surplus di bilancio dei Paesi in attivo il rilancio di quelle aree avviate alla desertificazione.

keynescolour[1]Ci sono dei momenti nella storia in cui la logica del gioco cambia. Prima lo si riconosce, meglio è. Così oggi, quando per rilanciare l’economia e salvare la democrazia occorre un riorientamento politico di fondo in grado di capire che, per ragioni economiche e politiche, è venuto il momento di rimettere in linea la spinta individuale, l’efficienza di sistema, l’integrazione sociale. Cominciando dal lavoro per rilegare, come fece Keynes nel dopoguerra , economia e società.

Mauro Magatti

Corriere della Sera

23 giugno 2015

http://www.corriere.it/opinioni/15_giugno_25/piena-occupazione-ritorno-futuro-f53b0da2-1b09-11e5-8694-6806f55cfc9e.shtml

Prestatore di ultima istanza

lluviaeuroStasera a Bruxelles si terrà un annunciato vertice tra capi di stato e di governo per discutere “ai massimi livelli politici” il futuro della Grecia e dell’euro. Se oggi c’è ancora il tempo materiale per intavolare una discussione tra il governo di Atene guidato dal baldanzoso Alexis Tsipras e i suoi creditori internazionali sempre meno fiduciosi, lo si deve soprattutto ad alcune scelte tecniche compiute dalla Banca centrale europea presieduta da Mario Draghi. Draghi infatti, negli ultimi mesi, ha aderito quasi alla lettera ai compiti del “prestatore di ultima istanza” che per primo Walter Bagehot, giornalista inglese e poi direttore dell’Economist, descrisse compiutamente nel diciannovesimo secolo.

In particolare nel saggio “Lombard Street” del 1873, che Luigi Einaudi da giovane economista volle tradurre in italiano nel 1905, Bagehot studiò i nessi tra panico e liquidità. Scrivendo tra le altre cose che, nelle fasi di panico sui mercati, il prestatore di ultima istanza – il cui ruolo è ricoperto perlopiù dalla Banca centrale – dovrebbe prestare a tutti coloro che in cambio offrono garanzie, e dovrebbe prestare rapidamente e abbondantemente. Compiendo questa scelta, i prestatori di ultima istanza “placano il sentimento di panico; con qualsiasi altra politica invece lo intensificano”. Bagehot sosteneva dunque che il banchiere centrale dovesse soddisfare aumenti improvvisi di domanda di liquidità, impedendo il tracollo di banche illiquide ma solvibili.

E’ esattamente quanto sta accadendo in queste ore nelle banche private della Grecia. Tra i cittadini si diffonde sempre più la preoccupazione che il governo greco possa non riuscire a stringere un accordo con i creditori internazionali, costringendo in questo modo il paese al default o all’uscita dall’euro, o addirittura ottenendo entrambi questi esiti. Si temono scenari catastrofici, tra cui l’ipotesi di trovarsi tra pochi giorni a maneggiare una valuta decisamente meno pesante dell’euro. La dimostrazione di questo panico è nella fuga di depositi dagli istituti di credito del paese. Se prima della crisi i depositi nelle banche greche ammontavano a quasi 240 miliardi di euro, nel 2009, oggi sono scesi a circa 130 miliardi di euro. Dalla primavera del 2012 i deflussi si erano fermati, e anzi i depositi erano tornati ad aumentare fino a quasi 160 miliardi di euro. Poi però, dalle elezioni dello scorso gennaio e dal clima di incertezza che ne è seguito, i cittadini greci hanno ripreso questa forma di esodo; solo nell’ultima settimana, con l’avvicinarsi di scadenze improcrastinabili nelle trattative tra Atene e i suoi creditori, 4-5 miliardi di euro fuggiti dai conti correnti. La Grecia, secondo gli analisti di Barclays, si sta trasformando in una “cash economy”: da novembre ad aprile il valore delle banconote circolanti è aumentato di 13 miliardi di euro.

 

Di fronte a queste evoluzioni rischiose, cioè alle avvisaglie di una possibile corsa agli sportelli, la Banca centrale europea nelle ultime settimane ha compiuto di iniezioni di liquidità straordinaria alle banche elleniche per compensare i deflussi della stessa. Lo ha fatto ricorrendo appunto alla Emergency liquidity assistance, o Ela, una forma di finanziamento al di fuori delle normali operazioni di di politica monetaria. Come spiega la stessa Bce, l’Ela consiste nell’erogazione da parte delle banche centrali nazionali (BCN) dell’Eurosistema di: (a) moneta di banca centrale e/o; (b) qualsiasi altra tipologia di assistenza che possa comportare un incremento della moneta di banca centrale a favore di un’istituzione finanziaria solvibile o di un gruppo di istituzioni finanziarie solvibili che si trovino ad affrontare temporanei problemi di liquidità, senza che tale operazione rientri nel quadro della politica monetaria unica. La responsabilità dell’erogazione di ELA compete alle rispettive BCN. Ciò significa che qualsiasi costo e rischio derivante dalla concessione di ELA è sopportato dalle rispettive BCN”. Ancora venerdì scorso la Bce ha alzato il tetto del programma di liquidità d’emergenza (Ela) a favore delle banche greche; era già successo a inizio settimana, con il tetto dell’Ela alzato di 1,1 miliardi di euro a quota 84,1. Questa mattina, secondo indiscrezioni riportate dalle agenzie di stampa internazionali, l’ennesima iniezione. Tre operazioni in nemmeno 10 giorni, praticamente un record.

 

Non è la però prima volta che la Bce di Draghi opera da “prestatore di ultima istanza”. Nel 2012, per tenere fede alla promessa di fare “whatever it takes”, cioè tutto il necessario, per salvare la moneta unica, la Bce introdusse lo strumento delle Outright monetary transactions (Omt), quindi la possibilità di acquistare titoli di stato di alcuni paesi membri in cambio del rispetto di certe condizioni. Secondo l’economista della Luiss ed esperto di politica monetaria Pierpaolo Benigno, “non si tratta di un nuovo ruolo per le banca centrali, anzi è vecchio quanto la nascita delle stesse. Non deve neanche sorprendere che questo ruolo si allarghi agli Stati perché, come dice Bagehot, bisogna prestare «a questo o a quell’altro uomo», a chiunque si trovi a rischio di una crisi di liquidità. Gli Stati non sono affatto differenti dagli altri debitori, perché anch’essi non hanno immediata liquidità per far fronte ai propri debiti. A maggiore ragione una loro eventuale crisi di liquidità è ancora più pericolosa perché, date le dimensioni, diverrebbe sicuramente crisi sistemica e metterebbe in pericolo l’euro stesso”.

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Se oggi si può sperare ancora in un accordo sulla Grecia, c’è da ringraziare Draghi<!– –>

di Marco Valerio Lo Prete  –  Il Foglio 22 Giugno 2015

http://www.ilfoglio.it/economia/2015/06/22/se-oggi-si-parla-ancora-di-un-accordo-sulla-grecia-c-da-ringraziare-draghi___1-vr-130077-rubriche_c325.htm

Mercato e Welfare: commento alla traccia

Il commento:
La prova proposta dal Ministero consiste nella cosiddetta tipologia A che prevede la trattazione di problemi, concetti o temi delle discipline giuridiche ed economiche, partendo dall’analisi di alcuni documenti forniti, documenti che gli studenti devono analizzare, mettendo in risalto ciò che gli autori sostengono, e argomentare con proprie riflessioni sulla base delle conoscenze acquisite. Il tema da trattare è il rapporto fra mercato e le politiche di welfare state nell’epoca dell’economia globale, mentre, nella seconda parte, i candidati dovranno rispondere a due fra i quattro quesiti proposti dal Ministero.

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http://www.corriere.it/scuola/maturita-2015/notizie/maturita-2-15-seconda-prova-scienze-sociali-welfare-mercato-globalizzazione-098b6616-15c0-11e5-8c76-9bc6489a309c.shtml

Ecco perché cresciamo troppo poco

ripresa-mercato-auto[1]Nelle relazioni dei convegni si parla soprattutto delle condizioni favorevoli alla ripresa. E si concorda nel descriverle come esogene e pressoché irripetibili e così dicendo si allude ovviamente al basso prezzo del petrolio, agli impegni della Bce e alla svalutazione dell’euro sul dollaro. Terminato il programma del meeting, nei conciliaboli prima dello sciogliete le righe, il focus della discussione però diventa un altro: «Ma perché la nostra ripresa è così debole?». Perché nonostante tutti gli scenari di medio periodo concedano previsioni di bel tempo restiamo appesi all’emissione di questo o quel dato trimestrale o addirittura mensile? Prendete gli ultimi, quelli relativi alla produzione industriale di aprile, ebbene più di qualche economista era disposto a scommettere su un +0,8%, non si sarebbe stupito molto se poi il dato si fosse fermato attorno a +0,5%, ma non si sarebbe mai aspettato il vero responso: -0,3% su marzo. Un dato estremamente negativo perché segna una partenza tutta in salita del secondo trimestre 2015, proprio quello che con un risultato rotondo alla misurazione del Pil di agosto dovrebbe certificare che finalmente la nave va. Con questi presupposti, e pur contando su un rimbalzo tecnico a maggio, non è detto che l’esito sia quello auspicato.

Forse però più che aggiungere previsioni a previsioni ha senso ragionare su quali siano le cause, o se preferite i tappi, che ostacolano un flusso più regolare di ripresa delle attività e di conseguenza dati più lineari .

Va detto che in materia le opinioni degli economisti divergono ampiamente. Per carità, le diagnosi della «malattia italiana» della crescita lenta concordano su molti fattori, la divergenza è sull’hic et nunc, su quali siano in questo momento le principali ostruzioni. La corrente più ampia sostiene che la ripresa italiana non va a briglia sciolta perché persiste un problema di bassa produttività sia del lavoro sia del capitale. Ci sarebbe bisogno, a tempi brevi, di relazioni industriali più vicine al mercato e quindi di un ampio ciclo di contratti aziendali rivolti a rimettere in asse il lavoro, con la ristrutturazione silenziosa che in questi anni ha comunque cambiato il meccanismo di funzionamento delle aziende sane. Il problema si pone anche sul versante del capitale, che risponde ancora a schemi ingessati e non è in grado, quindi, di interpretare i mutamenti dei cicli economici e le esigenze di sviluppo, che richiedono investimenti sia tradizionali (macchine) sia innovativi (capitale umano e reti). Un capitale poco aperto risulta, secondo questa tesi, il meno congeniale per interpretare al meglio questa fase della crescita e comunque rischia di diventare nel medio periodo un’occlusione.

Se il mea culpa sulla produttività convince una buona parte degli addetti ai lavori, non tutti però sono d’accordo nell’additarlo come il vero tappo di oggi. Una seconda corrente di pensiero propende per mettere sul banco degli imputati l’ampia polarizzazione che si è prodotta durante la Grande Crisi nel sistema delle imprese italiane. In soldoni: abbiamo imprese che macinano utili e programmano addirittura raddoppi del fatturato nei prossimi anni accanto a un numero largamente maggioritario di aziende che rischiano di chiudere e purtroppo, con tutta probabilità, chiuderanno. Questa divaricazione così profonda e drammatica sarebbe la madre di numeri così ballerini e a volte sconcertanti. Il tema della polarizzazione era stato già sottolineato, ad esempio, nelle Considerazioni finali del governatore Ignazio Visco e più in generale si spiega, tra le altre cose, con un ritardo della media delle imprese italiane nello sfruttamento delle tecnologie dell’informatica e della comunicazione. Le indagini in materia danno numeri poco confortanti.

Una terza corrente di pensiero, pur non sottovalutando gli elementi di cui sopra, è portata a puntare il dito sul perdurante ristagno della domanda interna. Non ci sarebbe dunque – sul breve – un problema legato al nostro sistema delle imprese poco produttivo e poco aperto ma la causa della ripresa a singhiozzo è individuata nella mancata (vera) ripartenza dei consumi, che finisce per tarpare le ali alla maggioranza delle aziende, ovvero a quelle che non riescono ad esportare né direttamente né come fornitrici di altre. E fin quando sarà così, sostengono i «domandisti», non si potrà sapere chi ha veramente ragione nell’individuare il tappo, mancherà la controprova.

Le cose dunque stanno così, non si riparte come vorremmo e gli addetti ai lavori non sono unanimi nel trarne valutazioni utili, quantomeno però evitano di ragionare in chiave politicista e ricadere anche loro nel vizio nazionale del Renzi sì/Renzi no. Resta, per concludere, un’annotazione affatto scontata: pur sostenendo – e a me è capitato molte volte – che l’industria italiana è profondamente cambiata e il nuovo paradigma è l’esperienza Luxottica, quando si tratta di dare una spallata al Pil rientra fortunatamente in campo Sua Maestà l’Auto. È vero che il ciclo produttivo dell’automotive è cambiato e oggi la vendita di una vettura porta fatturato a un numero enorme di fornitori di apparecchiature di ogni tipo e ad alto contenuto di elettronica, ma resta la sensazione che il Novecento conti ancora molto nei nostri destini.

Professor Lego

images0PYNW7KDChi da piccolo ha giocato molto con i mattoncini Lego, si è poi laureato ed è in attesa di trovare un lavoro, può presentare il proprio curriculum all’Università di Cambridge. Stanno cercando un professore di «Gioco nell’educazione, nello sviluppo e nell’apprendimento», una cattedra che non esisteva ed è stata istituita grazie a una donazione di 2,5 milioni di sterline dalla stessa Lego Foundation. Non fatevi ingannare, sarà un lavoro molto serio. Lego vuole che il nuovo centro di ricerca e l’inedito corso di laurea rendano possibile «un futuro in cui imparare giocando porti i bambini a diventare creativi, impegnati e disponibili ad apprendere per tutta la vita».

L’indagine

Se Lego non avesse rischiato il fallimento una decina di anni fa, a nessuno sarebbe venuta l’idea di fare qualcosa per rilanciare il vecchio modo di apprendere giocando, così abituale nelle vecchie generazioni e così ostile alle nuove. Nel 2004 la Lego perdeva un milione di dollari al giorno e avrebbe chiuso i battenti dopo 112 anni di attività, se al nuovo amministratore delegato Jorgen Knudstorp non fosse venuta l’idea giusta: poiché era evidente che Lego aveva perso il contatto con i propri clienti, era necessario andare a trovarli uno per uno, e farsi spiegare perché.

L’indagine avviata in centinaia di famiglie americane ed europee ha dato risultati che nessuno si aspettava. I bambini della classe media vivevano in un modo molto diverso da quello che Lego pensava: erano meno liberi di esprimersi e soffocati da una continua sorveglianza. Le loro camerette non avevano nulla di personale, ma sembravano tutte progettate da madri che avevano sfogliato a lungo Elle Décor dal parrucchiere: erano piene di accessori assurdi e di scenografici modellini di aerei appesi al soffitto. All’uscita da scuola, quasi tutti i bambini salivano su un suv per essere portati alle attività del pomeriggio, in un’altra messa in scena del loro processo di sviluppo. «Sembra quasi – dice un illuminante rapporto sulla ricerca pubblicato dall’Harvard Business Review – che le madri abbiano in mente un modello di bambino e che lo vogliano intelligente, divertente, brillante, espansivo e tranquillo nello stesso tempo».

La cameretta

Quando gli inviati di Knudstorp hanno potuto chiedere ai bambini come avrebbero disegnato la propria camera, hanno scoperto che la maggior parte di loro sognava spazi e porte segrete, scatole nascoste contenenti sostanze pericolose e riferimenti ai loro eroi televisivi. Ogni risposta celava in realtà un solo desiderio: «State lontani da qui». I bambini soffrivano di un eccesso di sorveglianza e di mancanza di libertà: erano prigionieri del Panopticon, il carcere inventato da Jeremy Bentham e studiato da Michel Foucault, nel quale i reclusi sono continuamente osservati da qualcuno che non possono vedere. Tornato in ufficio, il capo del progetto di ricerca aveva disegnato sulla lavagna due cerchi, uno più grande e l’altro più piccolo. «Quello grande – aveva detto – è quello nel quale giocavamo noi. Quello piccolo è quello dove si trovano i bambini oggi».

I predecessori

Per riportare il cerchio piccolo a condizioni accettabili, Lego ha progettato una nuova serie di costruzioni, che aiutino i bambini a imparare giocando e finanzia progetti come quello di Cambridge. Quando sono lasciati liberi e non sono soffocati da attenzioni eccessive, i bambini sperimentano situazioni nuove, risolvono problemi, inventano, creano, sperimentano, esplorano e imparano più in fretta che in qualunque percorso di studio obbligato. Lo avevano già capito Maria Montessori, con il suo metodo didattico basato sulla spontaneità, e Loris Malaguzzi, con i suoi commoventi asili nelle campagne di Reggio Emilia nei quali, creando e pasticciando, migliaia di bambini hanno costruito la propria intelligenza. Poco prima di morire nel 1994, questo quasi sconosciuto eroe italiano era stato celebrato da Newsweek e aveva ricevuto un importante premio danese: quello della Lego.

Vittorio Sabadin

La stampa 17 giugno 2015

 

http://www.lastampa.it/2015/06/17/societa/cambridge-imparare-giocando-arriva-il-professor-lego-wXzIRj4pgqZ1yQx86idO6H/pagina.html

Cambridge

A Lego professorship is to be created at Cambridge University.

The role is being established within the Faculty of Education to “support research in the field of play in education, development, and learning in the University”.

It is funded by the Lego Foundation, the research arm of the plastic block-building toy company.

The General Board, in their Report on the Establishment of Certain Professorships, published in the Cambridge University Reporter yesterday, recommended the establishment of a Lego Professorship of Play in Education, Development and Learning from the start of the next academic year……

http://www.cambridge-news.co.uk/Lego-professor-start-Cambridge-University-year/story-26681208-detail/story.html#ixzz3dAHigfFP

Il primo diritto o l’ultimo dei privilegi?

MHMHMHTra celebrazioni e discussioni, ieri si sono festeggiati gli ottocento anni della Magna Charta. Il documento che il re inglese Giovanni Senzaterra fu costretto a concedere ai nobili, fu firmato a Runnymede, lungo il Tamigi, il 15 giugno del 1215. Era la prima volta che il sovrano limitava il proprio potere assoluto e per questo quell’atto viene considerato come il momento in cui nasce il costituzionalismo inglese. Il fatto che quel patto venga modificato molte volte nei tempi successivi non fa che attestare la sua importanza.
Da qualche giorno la stampa anglosassone non parla d’altro. Sul Tamigi sono state organizzate parate e sono arrivate decine di telecamere a riprendere la regina Elisabetta e il premier David Cameron. La British Library ha inaugurato una grande esposizione, e perfino Google ieri celebrava sulla homepage l’evento con un doodle animato. Ma tra gli storici le opinioni divergono. Tutto ruota intorno a una domanda: la Magna Charta è davvero il documento fondativo delle nostre libertà democratiche e costituzionali? A tanti secoli di distanza la questione è aperta. Con quel documento il re assicurava ai baroni che non potevano essere catturati, torturati, sbattuti in prigione indiscriminatamente. In poche parole non potevano essere spossessati dei loro diritti, né violati nella loro integrità fisica. Stefano Rodotà che da anni si occupa dei diritti della persona spiega: «È chiaro che la Magna Charta non è una concessione di diritti a tutti i cittadini ma solo ad alcune categorie, come ecclesiastici e nobili. Ma ha una simbolicità innegabile, soprattutto per quanto riguarda l’articolo trentanove, in cui è introdotto l’Habeas corpus, a garanzia del corpo e dei diritti della persona ». Quell’articolo dice: «Non metteremo le mani su di te. Per questo fu uno strumento importante della limitazione del potere».
Nel corso degli anni, la Magna Charta è chiamata in causa ogni volta che ci sono lotte per la libertà degli individui. C’è una Magna Charta dietro Oliver Cromwell, una che attraversa l’oceano e arriva ad animare la rivoluzione americana, una Magna Charta dietro le lotte per l’indipendenza di Gandhi e di quelle di Nelson Mandela. Claire Breary, a capo dei manoscritti medievali della British Library ha detto: «È diventata un simbolo di libertà e di diritti, è nota in tutto il mondo come il testo che difende da qualunque tirannia». Dunque, sebbene vada inscritta nel quadro di una giurisprudenza feudale, la Magna Charta Libertatum è stata interpretata come il documento che pone le basi per il riconoscimento universale dei diritti dell’uomo e del cittadino.
Non tutti però sono d’accordo. Tra gli studiosi c’è chi considera certi toni esageratamente celebrativi. «In realtà si tratta solo del risultato di una lotta interna alle élite per i loro privilegi », ha scritto sul New York Times Tom Ginsburg, professore di diritto internazionale a Chicago. E Carlo Galli, filosofo politico, chiarisce: «La Magna Charta non è altro che una delle tante forme di pattuizione che nel Medioevo intercorrono tra monarchi e nobili, i quali ottengono che il re non possa chiedere loro aiuti economici senza prima averli consultati. Tutte le altre valutazioni sono costruzioni ideologiche posteriori, narrazioni, invenzioni ideate nel XVI e XVII secolo e portate avanti nell’Ottocento. Dire che si fonda sui diritti umani uguali per tutti è come dire che Giulio Cesare andava in bicicletta. Ma così l’Inghilterra ha costruito il suo mito politico». Quindi, non dobbiamo considerare la democrazia occidentale come figlia della Magna Charta? «La nostra democrazia si fonda sulla rivoluzione francese e sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del cittadino, in cui il potere appartiene a tutto il popolo». In un articolo sul
New Yorker , Jill Lepore, docente di storia ad Harvard, ha scri to che «l’importanza della Magna Charta è stata sopravvalutata e il suo significato distorto ». Per uno storico del diritto penale antico attento a questi temi come Adriano Prosperi è invece proprio da questo documento che prende vita il parlamentarismo, attraverso la nascita delle prime assemblee dei baroni ed è lì che si pone la «questione decisiva della protezione dei diritti della persona». Il problema è semmai un altro: il modo in cui noi occidentali siamo riusciti a dimenticare i sacri principi di quella Charta. Dice Prosperi: «In nome del terrorismo come nemico assoluto ha prevalso il principio dell’efficacia. Viviamo ormai in uno stato d’eccezione permanente che erode ogni diritto». Il tema è infinito e nell’era di Internet si complica. «Oggi avremo bisogno di proteggere il nostro corpo elettronico», dice Rodotà, che sta coordinando la commissione parlamentare per la “Dichiarazione dei diritti di Internet”. Il prossimo passaggio sarà la nascita dell’Habeas Data.

Raffaella De Santis

Repubblica  16 giugno 2015

BRITISH LIBRARY

Foundation of democracy or rallying cry for modern rights? One of the world’s most famous documents, Magna Carta has inspired some of today’s fundamental liberties. Yet it started as a practical solution to a political crisis 800 years ago. Since 1215, Magna Carta has evolved from a political agreement to an international symbol of freedom. Uncover the story of how its power has been used – and abused – from its genesis through to today’s popular culture, in the largest exhibition ever staged about this world-famous document. Explore centuries of dramatic history, from King John, medieval battles, revolution, wars, empire and the struggle for the right to vote, right up to today’s satirical commentaries …….

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