2006 e 2016

Differenze tra la riforma costituzionale di Berlusconi (2006) e quella di Renzi (2016)
Corriere della Sera, giovedì 29 settembre 2016
ricostQuali sono le principali differenze fra la riforma costituzionale voluta da Berlusconi nel 2006 e la riforma Renzi-Boschi? Quali furono le motivazioni che portarono la maggioranza dei votanti a bocciare il referendum Berlusconi?
Emma Menegon – Vicenza

Cara Signora,
Fra i due progetti esistono alcune somiglianze. In entrambi i casi le maggiori preoccupazioni dei riformatori sono state la fine del bicameralismo perfetto, la riduzione del numero dei deputati e dei senatori, la trasformazione del Senato in una Camera alta delle autonomie locali, secondo il modello tedesco, il rafforzamento del potere esecutivo e la restituzione al centro di alcuni dei poteri che la riforma del Titolo V della Costituzione, nel 2001, aveva trasferito alle Regioni. Ma vi sono anche differenze dovute alle diverse esperienze politiche di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi.
La formula adottata dal Partito delle libertà e dalla Lega conferisce al presidente del Consiglio poteri molto simili a quelli del premier britannico. I principali candidati diventano i protagonisti delle campagne elettorali e il vincitore non ha bisogno della nomina del capo dello Stato per diventare capo del governo. Può nominare e revocare i suoi ministri, non deve chiedere il voto di fiducia e può invitare il presidente della Repubblica a sciogliere le Camere. Il suo potere è ulteriormente rafforzato da qualche ritocco alla composizione della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Credo che questa versione italiana del premierato inglese fosse anche il risultato dei rapporti che Berlusconi aveva avuto negli anni precedenti con due presidenti della Repubblica: decisamente difficili con Scalfaro e piuttosto freddi con Ciampi. Il progetto conteneva alcuni passaggi discutibili, ma non mi sembrò una minaccia alla democrazia italiana.
Il progetto del governo Renzi tiene conto di alcune delle critiche mosse a quello di Berlusconi prima del referendum del 2006. I redattori non hanno messo in discussione né i poteri del presidente della Repubblica, né quelli della Corte costituzionale e del Consiglio superiore della magistratura. Anche Renzi vuole rafforzare il potere dell’esecutivo e lo ha motivato con argomenti che mi sono parsi abbastanza convincenti, ma spera di raggiungere lo scopo con altri mezzi: l’abolizione del bicameralismo perfetto e una legge elettorale che lasci sul terreno, dopo la battaglia elettorale, un vincitore indiscusso.

Sergio Romano

Via libera al Def, Pil all’1% nel 2017 e deficit fino al 2,4%

defffLa crescita si fermerà allo 0,8% quest’anno e all’1% l’anno prossimo, e il rapporto deficit/Pil si attesterà al 2,4% quest’anno e l’anno prossimo al 2%, ma con una possibile estensione di un ulteriore 0,4%. Lo annuncia il premier Matteo Renzi, nella conferenza stampa sulla nota di aggiornamento del Def, il Documento economico e finanziario appena approvato, al termine di un Consiglio dei Ministri cominciato con oltre un’ora di ritardo, e finito dopo appena 50 minuti.

Renzi ha precisato subito che per il 2017 “l’Italia chiederà un indebitamento ulteriore di 0,4 punti percentuali per il sisma e per la gestione dell’immigrazione”. E dunque anche l’anno prossimo il deficit potrebbe arrivare al 2,4%: non si tratta di chiedere nuova flessibilità, precisa il premier. E in effetti nel pomeriggio fonti della Commissione Ue avevano ribadito quanto già trapelato nei giorni precedenti, e cioè che non c’è alcun negoziato sulla flessibilità in corso con l’Italia, e che le cifre aggiornate del nuovo Def sarebbero state valutate “secondo le scadenze previste”. “Non c’è flessibilità in questa Nota di aggiornamento al Def – obietta però Renzi – perché con una decisione che non ci convince si è deciso che vale una sola volta e noi l’abbiamo utilizzata lo scorso anno. Per me è un errore, c’è uno 0,4% massimo di circostanze eccezionali che è altra cosa rispetto alla flessibilità e riguarda elementi che nessuno può contestare che sono sisma e immigrazione”.

La stima del Pil per quest’anno è sostanzialmente allineata a quella delle principali istituzioni economiche internazionali (coincide con quella dell’Ocse) e nazionali (Prometeia stima poco meno, lo 0,7%, come Confindustria). Alcuni giorni fa il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan aveva invece contestato le stime di Confindustria, ribattendo che il governo “ne aveva di migliori”. Ma oggi, ammette Renzi, ha prevalso invece “San Prudenzio, linea Padoan. Non è la linea del 7,8% di crescita proposta da Palazzo Chigi”, scherza il premier, aggiungendo però subito: “È una battuta”.

A questo punto l’attesa si concentra sulla nuova legge di Bilancio. Renzi ha liquidato la questione dicendo che “le tasse non aumenteranno, ci saranno misure sulla competitività, no alle salvaguardie, metteremo più soldi sulla sanità”. Il che si traduce nell’ennesima conferma della sterilizzazione delle clausole di aumento dell’Iva (il costo è di circa 15 miliardi), della spesa sanitaria già stabilita e probabilmente degli interventi anticipati nei giorni scorsi: il piano per l’industria 4.0, la conferma dell’ecobonus anche per il 2017, il rinnovo dei contratti della Pubblica Amministrazione (700 milioni di euro). E c’è poi il capitolo previdenza, che include l’Ape, l’uscita anticipata, ma non solo, anche il raddoppio della quattordicesima per i percettori di pensioni minime: in campo circa un miliardo e mezzo

Una manovra che potrebbe arrivare fino ai 24-25 miliardi, e che però dovrà per forza includere dei tagli, oltre che una ricerca di risorse ulteriori da reperire principalmente tra spending review e rientro dai capitali dall’estero.

Rosaria Amato

La Repubblica, 28 settembre 2016

http://www.repubblica.it/economia/2016/09/27/news/def_-148657951/?ref=HREC1-15

I NUMERI DEL DEF

http://www.repubblica.it/economia/2016/09/27/news/def_legge_bilancio_2017-148644256/?ref=HREA-1

 

Sì o No ?

referrrrrrrReferendum costituzionale 2016: perché votare Sì

Per i sostenitori del Sì, tra cui troviamo non solo esponenti Pd ma anche professori di legge e studiosi della Costituzione, la riforma Boschi sarebbe un “salto di qualità” per il sistema politico italiano, al quale si dà respiro dopo decenni di procedure legislative lente, macchinose e costose.

La Costituzione, inoltre, non è una carta immutabile, e nei 70 anni dalla firma del testo costituzionale così come lo conosciamo si sono susseguiti tantissimi governi, segno di fragilità di un Paese che ora deve dimostrare di essere credibile e forte a livello internazionale.

Ecco alcune buone ragioni per votare Sì al referendum costituzionale di novembre 2016:

  • addio bicameralismo: si supera il meccanismo con cui le leggi vengono passate da Senato a Camera e tutte le lentezze e i ritardi che ne derivano;
  • il fatto che solo la Camera debba concedere la fiducia al governo implica l’instaurazione di un rapporto di fiducia esclusivo con quest’ala del parlamento;
  • la diminuzione del numero dei parlamentari e l’abolizione del Cnel porterà notevoli risparmi;
  • grazie all’introduzione del referendum propositivo e alle modifiche sul quorum referendario aumenterebbe la democrazia diretta;
  • il Senato farà da “camera di compensazione” tra governo centrale e poteri locali, quindi diminuiranno i casi di contenzioso tra Stato e Regioni davanti la Corte costituzionale.

Referendum costituzionale 2016: perché votare NO

Tutte le ragioni anti-referendum sono dichiarate sul sito ufficiale del comitato del No.
I motivi per cui gli italiani dovrebbero opporsi all’approvazione della riforma Boschi-Renzi-Verdini si possono riassumere in 7 punti:

1) si tratta di una riforma non legittima perché prodotta da un parlamento eletto non dal popolo ma con una legge elettorale (Porcellum) dichiarata incostituzionale. Inoltre, anche agli amministratori regionali e locali si va a garantire l’immunità parlamentare;

2) non è una riforma scritta in modo chiaro e semplice e, soprattutto, non è stata prodotta per iniziativa libera del parlamento, ma sotto dettatura del governo;

3) il bicameralismo non viene davvero superato, come dice il governo, bensì reso più confuso creando conflitti di competenza tra Stato e Regioni e tra Camera e nuovo Senato;

4) non crea semplificazioni per quanto riguarda il processo di produzione delle norme, anzi lo complica: dalle nuove norme su Senato e procedura legislativa deriverebbero almeno 7 procedimenti legislativi differenti;

5) i costi della politica non vengono dimezzati: con la riforma si andrà a risparmiare circa il 20%, ma in realtà sono in arrivo nuove indennità al rialzo per i funzionari parlamentari;

6) l’ampliamento della partecipazione diretta dei cittadini comporterà l’obbligo di raggiungimento di 150mila firme (attualmente ne servono 50mila) per i disegni di legge di iniziativa popolare;

7) non garantisce la sovranità popolare: insieme alla legge Italicum, che mira a trasformare una minoranza in maggioranza assoluta di governo, espropria il popolo dei suoi poteri e consegna la sovranità nelle mani di pochi.

Brano tratto da:

https://www.forexinfo.it/Referendum-costituzionale-2016-cosa-votare-si-o-no-come-funziona

 

Le ragioni del SI

http://www.bastaunsi.it/

Le ragioni del NO

http://www.referendumcostituzionale.online/

 

10 domande & risposte sul referendum costituzionale

ref1) Quando è stata votata dal Parlamento la riforma della Costituzione e perché sarà necessario sottoporla a un referendum popolare?

La riforma della Costituzione è stata approvata dal Parlamento in via definitiva il 12 aprile 2016, dopo una doppia lettura al Senato e alla Camera. Poiché però l’approvazione è avvenuta con una maggioranza inferiore ai due terzi dei componenti di ciascuna Camera, secondo quanto previsto dall’art. 138 della Costituzione  il provvedimento non è stato direttamente promulgato per dare la possibilità di richiedere – entro tre mesi dalla pubblicazione del testo sulla Gazzetta ufficiale – un referendum confermativo da parte di un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali, come è effettivamente accaduto. Va ricordato che per il referendum costituzionale, a differenza di quello abrogativo, non è previsto un quorum di partecipazione per la sua validità.

2) Nella storia della Repubblica ci sono precedenti di modifiche della Costituzione e relativi referendum?

Nella storia della Repubblica sono state realizzate diverse revisioni della Costituzione, anche se nella maggior parte dei casi su aspetti molto specifici. In due casi si è dovuti ricorrere al referendum confermativo, non essendo stato raggiunto in Parlamento il quorum dei due terzi.
Il 7 ottobre 2001 gli elettori approvarono con il 64% di voti favorevoli le modifiche introdotte dal governo dell’Ulivo nel Titolo V della seconda parte della Costituzione, modifiche che intendevano porre le basi per una futura trasformazione dell’Italia in una Repubblica federale.
Nel 2005 anche il Governo Berlusconi promosse un progetto organico di revisione della seconda parte della Costituzione, volto a rafforzare i poteri dell’esecutivo e ad ampliare il federalismo. Questa riforma fu però bocciata nel referendum popolare del 25/26 giugno 2006, con il 62% di voti contrari.

3) Quali sono i punti qualificanti della riforma introdotta dal disegno di legge Boschi?

Il disegno di legge del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi contiene due punti qualificanti: la modifica della disciplina del Parlamento italiano con il superamento dell’attuale bicameralismo perfetto e la revisione del Titolo V della Costituzione. Accanto a questi interventi maggiori il Ddl governativo prevede la soppressione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e altre misure volte al contenimento dei costi istituzionali.

4) Come è composto il nuovo Senato previsto dalla riforma?

Nella riforma il Senato diventa il ramo parlamentare rappresentativo delle istituzioni territoriali. È composto da 95 senatori, non più eletti dal popolo ma scelti dai Consigli regionali e dalle Province autonome di Trento e Bolzano tra i propri membri e tra i sindaci dei Comuni del proprio territori (uno per ciascuna Regione e Provincia autonoma per un totale di 21 componenti). Ai senatori rappresentativi del territorio si aggiungono 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica per i loro meriti per un periodo di 7 anni, non rinnovabile. Resta immutata la previsione che chi è stato Presidente della Repubblica sia senatore a vita alla fine del suo mandato.
La composizione del Senato si rinnova in tempi differenti, in quanto la durata del mandato di senatore è legata a quella dei Consigli regionali o Provinciali che li hanno eletti.

5) Quali saranno, in caso di vittoria del “sì” nel referendum, le funzioni principali del Senato e quali funzioni invece verranno meno rispetto ad oggi?

Le funzioni principali del nuovo Senato saranno: assicurare la rappresentanza degli interessi territoriali a livello di formazione della legislazione statale; essere una sede di raccordo tra diversi livelli di governo nazionale e concorrere alla funzione di raccordo tra questi e l’Unione Europea. Al fine di svolgere queste funzioni, il Senato è chiamato a esercitare anche compiti di valutazione e di controllo dell’operato del Governo in aree che toccano gli interessi delle autonomie territoriali. Il Senato non sarà invece più chiamato a votare la fiducia al Governo e non partecipa alla funzione di indirizzo politico dell’azione del Governo.

6) Che cosa cambia dal punto di vista dell’iniziativa legislativa?

L’iniziativa legislativa è riconosciuta al Governo, e alla Camera dei deputati, che esercita da sola la funzione legislativa, tranne nei casi in cui è prevista l’approvazione collettiva di una legge da parte di entrambe le Camere. L’iniziativa legislativa è mantenuta in capo agli elettori e sono previste garanzie perché i disegni di legge popolari siano discussi. Sono poi previste altre forme di partecipazione degli elettori all’esercizio della funzione legislativa grazie all’introduzione in Costituzione dei referendum propositivi e d’indirizzo, oltre ad altre forme di consultazione.

7) La riforma introduce nuove garanzie democratiche?

La riforma introduce alcune garanzie democratiche come lo Statuto delle opposizioni per la Camera dei deputati e la tutela dei diritti delle minoranze parlamentari nei due rami del Parlamento. Entrambe le previsioni dovranno essere tradotte in puntuali disposizioni dei regolamenti parlamentari e non è possibile prevedere allo stato attuale in quale modo sarà effettivamente garantita l’opposizione politica. Tra le garanzie costituzionali va annoverata la nuova disciplina dell’elezione del Capo dello Stato da parte del Parlamento in seduta comune con l’innalzamento del quorum rispetto a quello attuale.

8) Nella riforma il ruolo dello Stato centrale viene rafforzato o indebolito?

La riforma ritorna sul Titolo V introducendo alcune modifiche che vanno nella direzione di un rafforzamento del ruolo dello Stato centrale. Tale obiettivo è realizzato attraverso l’eliminazione delle materie che attualmente ricadono nella competenza concorrente, l’incremento delle materie riservate alla legislazione esclusiva statale e l’introduzione della clausola di salvaguardia già menzionata o della clausola di intervento. Restano invariati gli altri aspetti relativi all’attribuzione ai Comuni delle funzioni amministrative, salvo diversa disposizione in forza dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza, e l’autonomia finanziaria.

9) Quali sono gli aspetti che nella riforma risultano ancora poco chiari?

In particolare le modalità di elezione dei senatori, l’esercizio collettivo della funzione legislativa da parte di Camera e Senato e la revisione del Titolo V nel segno di una maggiore centralizzazione.

10) Il referendum di ottobre riguarderà anche la nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum?

No, la nuova legge elettorale della Camera dei deputati, entrata in vigore il 1° luglio, non sarà oggetto del referendum costituzionale. Qualora il referendum avesse esito negativo, e dunque nulla dovesse cambiare relativamente alle funzioni del Senato, si avrebbero due leggi elettorali diverse per i due rami del Parlamento: l’Italicum per la Camera e il cosiddetto “Porcellum” per il Senato.
13 luglio 2016

La sindrome di Woody Allen che affligge i mercati

wa«Dio è morto, Marx è morto e anch’io mi sento poco bene». I mercati finanziari sembrano ormai afflitti dalla sindrome di «Woody Allen»: le banche centrali danno l’impressione di avere perso la bussola, l’economia sembra non rispettare più le regole basilari e – in questo contesto – anche i mercati non si sentono più molto bene. È per questo che navigano a vista. Seguendo di tanto in tanto brevi “mode” passeggere (il rallentamento cinese a inizio anno, la caduta del petrolio a febbraio, la crisi delle banche europee in primavera o l’incubo Brexit a giugno), destinate ad essere sostituite da altre “mode” altrettanto fugaci. Ma senza una visione del futuro. Senza un trend vero. Senza sapere dove stiano andando davvero. Basta parlare con qualunque strategist o investitore per capirlo: l’unica cosa che li accomuna è l’incertezza e la scarsa visibilità sul futuro.
Nella settimana in cui la Federal Reserve Usa e la Bank of Japan sono chiamate a decidere sulla loro politica monetaria (oppure a non decidere), la sindrome di Woody Allen appare nella sua piena evidenza. È ovvio infatti che le banche centrali siano in una fase di stallo. La Federal Reserve dovrebbe alzare i tassi d’interesse, perché l’economia Usa cresce e la disoccupazione è quasi completamente debellata. Ma tranne sorprese clamorose, anche alla luce della spaccatura all’interno del suo board, non farà nulla questa settimana. E forse non farà niente neppure nei prossimi mesi: perché i rischi (per l’economia Usa e per quella globale) sono elevati. E perché c’è sempre un motivo per aspettare. La Bank of Japan potrebbe ridurre i tassi o pigiare ulteriormente l’acceleratore della sua politica monetaria ultra-espansiva, ma in un contesto di scetticismo collettivo: ormai il dibattito verte più sugli effetti collaterali delle sue decisioni (per esempio sulle banche e sui fondi pensione) che sui benefici. E anche la Bce è in una fase di ripensamento della politica monetaria, spaccata anch’essa al suo interno. Morale: le banche centrali, che per anni sono state il “faro” dei mercati finanziari, ora sono diventate uno dei loro principali elementi di incertezza.
Anche i fondamentali economici, tradizionale bussola dei mercati, ormai sembrano parlare una lingua difficile da capire. Prendiamo l’economia Usa. La crescita del Pil c’è, la disoccupazione è ai minimi. Eppure tutti sanno che la qualità del lavoro è molto bassa, che la partecipazione al mercato del lavoro è sui minimi da decenni e che gli stipendi – stranamente data la vitalità della congiuntura – crescono poco. Le regole basilari dell’economia sembrano stravolte: perché il calo della disoccupazione non è accompagnato da un aumento vero dei salari? E poi: perché al calo della disoccupazione non corrisponde una crescita vera dell’inflazione? Forse proprio perché la ripresa dell’occupazione è di bassa qualità. O forse perché l’economia globale, non solo quella statunitense, sta cambiando strutturalmente: l’invecchiamento della popolazione, la digitalizzazione e tanti fenomeni globali hanno impatti consistenti ma difficili da decifrare. Qualcuno pensa che proprio questi cambiamenti strutturali stiano portando il mondo verso una «stagnazione secolare». Qualcuno ritiene che l’inflazione non risalirà mai e che le banche centrali perseguano ormai l’obiettivo sbagliato. Ma, in realtà, in pochi riescono davvero a decifrare mutamenti così complessi e così inediti. A partire dalle stesse banche centrali.
In un contesto così incerto, è ovvio che i mercati siano afflitti dalla sindrome di Woody Allen. Ed è altresì ovvio che siano dominati dai day trader (anch’essi ormai in gran parte computerizzati), che si muovono seguendo correlazioni momentanee oppure eventi sporadici. A inizio anno era il rallentamento economico della Cina a preoccupare tutti: così gli algoritmi muovevano tutte le Borse sincronizzandole con le notizie che uscivano da Pechino o da Shanghai. Poi è diventato il petrolio, che continuava a crollare, il focus: ad ogni sussulto del greggio, dunque, le Borse si muovevano in alto o in basso. Poi è arrivato l’isterismo da banche. Poi Brexit. Qualcuno pensa che il prossimo focus riguarderà gli utili delle aziende americane, qualcuno ritiene che saranno ancora le banche centrali a dettare il ritmo sulle Borse. Qualcuno teme che presto scoppierà una delle tante bolle speculative che il quantitative easing ha gonfiato. Ma, in questa era degli algoritmi, nessuno davvero lo sa.

Morya Longo
Il Sole 24 ore 20 settembre 2016

http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2016-09-19/la-sindrome-woody-allen-che-affligge-mercati-213626.shtml?uuid=ADFP57MB

 

Le cose positive dei tassi negativi

aaaeurrrDal 2014 a oggi si è verificato un cambio di paradigma nella politica monetaria delle principali banche centrali globali. I tassi d’interesse hanno cominciato a entrare in territorio negativo, al fine di stimolare una crescita economica stagnante.
Risultati
Le ripercussioni sono state significative sul mercato obbligazionario, sia sovrano sia corporate. Basti pensare che a livello globale poco più di 12.000 miliardi di dollari di bond governativi hanno rendimento negativo. Ma, dopo anni di attesa, qualcosa comincia a funzionare.
Chi la dura la vince. James Mackintosh ha fatto notare sul Wall Street Journal che il rimbalzo economico nell’eurozona inizia a manifestarsi, sia sul piano dell’occupazione sia sul versante degli investimenti fissi lordi, una componente fondamentale del Prodotto interno lordo (Pil). Entrando più nei particolari, secondo il database statistico della Banca centrale europea (Bce), in luglio gli investimenti fissi sono tornati al livello del 31 dicembre 2008. La loro crescita è stata costante dal giugno 2013, ma è nel 2015 che è avvenuta la spinta maggiore. Dopo le operazioni di stimolo, quindi. Se è vero che i risparmiatori tedeschi potranno non apprezzare le politiche della Bce, ricorda Mackintosh, è altrettanto vero che i tassi negativi nell’area euro sono uno strumento destinato a non durare per sempre. Una volta superata la fase di stimolo, la Bce di Mario Draghi procederà alla piena normalizzazione.
Esiste però una questione fondamentale che impensierisce gli investitori istituzionali e i policymaker. Fino a quando mantenere i tassi a questo livello? Traduzione: come riconoscere il momento giusto per avviare l’exit strategy?
Pericoli
Come spiega John Taylor, l’economista di Stanford che ha teorizzato la regola più usata dai banchieri centrali, la Taylor Rule, nel lungo termine è possibile che questa politica monetaria sia controproducente. «Senza dubbio non è possibile convivere con tassi così bassi e con rendimenti negativi su tutta la curva di un bond governativo. Qualunque investitore ha bisogno di rendimenti e di una precisa percezione del rischio di un asset. Chi crede che questa politica monetaria è la nuova normalità si sbaglia di grosso, perché si crea l’illusione che un asset sia sicuro quando non lo è. E inoltre la mancanza di rendimenti laddove ci sono sempre stati, come nel caso delle obbligazioni governative, può portare a sviluppi imprevisti», aggiunge Taylor. Il riferimento è alla nascita di bolle sui prezzi di altri asset, finora ignorati, che promettono un ritorno più elevato dell’investimento. «Il punto è chiaro: se non ci sono rendimenti sul mercato obbligazionario, un investitore li andrà a cercare altrove, anche in modo irrazionale. Ecco perché i tassi negativi possono minare alla stabilità finanziaria globale», continua l’economista.
Secondo la Taylor Rule, le autorità monetarie devono adattare il tasso di interesse nominale di breve periodo affinché sia pari al tasso di interesse reale di equilibrio, in modo da tenere bilanciato il rapporto tra Prodotto interno lordo (Pil), inflazione e il tasso di riferimento. Nel caso così non fosse, allora ci saranno squilibri in uno dei tre fattori, che potenzialmente possono creare scompensi a livello finanziario.
«Non è facile commentare le politiche di Bank of Japan e Bce, ma mi pare evidente che in entrambi i casi l’impatto dei tassi negativi sia modesto sia a livello d’inflazione sia a livello di economia», fa notare Taylor. In compenso, i rischi di questo atteggiamento di politica monetaria non sono pochi. «Il surriscaldamento di alcune aree economiche è possibile, quindi i policymaker devono stare molto attenti. In bilico c’è non solo l’economia globale, ma anche la credibilità stessa delle autorità monetarie», conclude.
Divergenze
È per questo che il numero uno di JP Morgan, James Dimon, ha chiesto a gran voce che la Federal Reserve continui ad alzare i tassi come promesso a più riprese. Questo perché negli Stati Uniti c’è l’evidenza che l’economia ha ripreso a marciare con un ritmo stabile e rilevante. Sono soddisfacenti il livello occupazionale e il tasso d’inflazione, come ricordato anche dal presidente della Fed Janet Yellen a Jackson Hole. E per evitare la creazione di asimmetrie su alcune classi di asset, come nel caso del comparto azionario.
La divergenza della politica monetaria tra la Bce e la Fed, derivante da un differente approccio temporale alla crisi post Lehman Brothers, è destinata a ridursi? Nel lungo periodo sì. Come ha ricordato Draghi durante l’ultima conferenza stampa dell’Eurotower, gli stimoli e i tassi bassi resteranno per un prolungato periodo. Tuttavia, una volta che tutti i segnali microeconomici saranno positivi, si potrà pensare al ritorno alle politiche non straordinarie. E le prime indicazioni stanno già arrivando.
Fabrizio Goria
Corriereconomia, 19 settembre 2016

Perché in galera in Italia ci finiscono solo i poveracci

 
a-porttSulla base dei precedenti non c’è da farsi davvero molte illusioni sulla punizione dei responsabili della sospetta (direi quasi certa) pessima qualità costruttiva di molti degli edifici crollati nel recente terremoto dell’Italia centrale. Infatti, come ha messo bene in evidenza l’inchiesta di Guastella e Pasqualetto pubblicata qualche giorno fa dal Corriere, nei decenni passati – dal Friuli all’Emilia passando per l’Irpinia e il Molise – tutte le numerose azioni giudiziarie conseguenti ai relativi terremoti occorsi in quei luoghi hanno portato a niente altro che ad appena 14 condanne di progettisti, costruttori e responsabili amministrativi, per un totale di pochi mesi effettivi di carcere.
È un dato che tuttavia non fa notizia. E si capisce perché: esso rimanda infatti a un fenomeno più generale, anche questo quasi scontato. In Italia, in prigione forse anche i benestanti, i professionisti, le persone più o meno importanti e quelle che appartengono a una certa classe sociale ci fanno qualche volta una capatina: ma quanto a restarci ci restano solo i poveracci. Non ingannino a questo riguardo le dure condanne, che pure ci sono, come quella a 10 anni di prigione inflitta pochi giorni fa ai vertici dell’industria farmaceutica Menarini. Le condanne in primo e magari anche in secondo grado ci sono, ripeto: peccato che però non corrispondano a nessuna punizione effettiva, cioè non mandino in prigione nessuno.
Novantanove volte su cento, infatti, con il tempo, con gli appelli, i contrappelli e la Cassazione, anche le condanne iniziali vengono poi cancellate. Sicché alla fine solo gli extracomunitari, gli infimi spacciatori, gli emarginati a vario titolo, gli appartenenti alle classi povere, popolano le nostre galere.
Nei Paesi che ci piacerebbe emulare non è così. In Germania, non molto tempo fa, il ricco e potente presidente del Bayern Monaco, condannato per evasione fiscale a due anni e poco più di prigione, ne varcò i cancelli nel giro di un paio di giorni. Un altro esempio: negli Usa i responsabili dei fallimenti bancari e assicurativi del 2008 sono da tempo dietro le sbarre con condanne pesantissime che, c’è da giurarci, sconteranno in grandissima parte. Il famoso finanziere Madoff, colpevole di aver ingannato e spogliato centinaia di ricchi e avidi gonzi che gli avevano affidato i loro capitali, si è beccato una condanna all’ergastolo.
Tutte cose in Italia impensabili: anche se nessuno sembra farci caso, nessuno solleva il problema. Meno che meno l’ineffabile Consiglio superiore della magistratura, pur così instancabilmente sollecito delle sorti della giustizia. E dire che proprio i magistrati, invece, sarebbero i più titolati a spiegarci il perché della vasta impunità italiana. A spiegarci, ad esempio, perché in mano ad avvocati abili, che però solo le persone agiate possono permettersi, le procedure assurde e i codici malfatti che ci governano consentono, attraverso tutto un sistema di rinvii, di prescrizioni e ricorsi, di vanificare indagini e sentenze. Chi lo sa meglio di loro? A quel che ricordo, invece, solo il presidente dell’Anm, Pier Camillo Davigo, vi ha in varie circostanze dedicato qualche attenzione.
Eppure – c’è bisogno di dirlo? – questo doppio standard nell’amministrazione della giustizia ha conseguenze vaste e gravissime. La prima conseguenza è la vanificazione di fatto, prima che del senso della legalità nei cittadini, della legalità effettiva in quanto tale. Una legge che non valga per tutti, infatti, non è più una legge: è un provvedimento arbitrario. Rispetto poi a chi dovrebbe obbedire, ai cittadini, è difficile immaginare che una qualunque legge sia davvero rispettata se sulla base dell’esperienza si diffonde la convinzione che a qualcuno è consentito non rispettarla senza essere sanzionato. Da ciò la seconda conseguenza: il discredito dell’intera sfera pubblica, a cominciare dalla magistratura per finire con la politica e con il governo: le loro leggi non valgono nulla dal momento che chi sa e soprattutto chi può le viola senz’alcun danno, e dunque anche quei poteri che le emanano e le amministrano non valgono nulla, non meritano alcun rispetto. Anche perché, siano essi di destra o di sinistra, pur sapendo bene come stanno le cose non muovono un dito per cambiarle.
Il modo d’essere della giustizia è così divenuto la manifestazione forse più importante della placida doppiezza morale che domina la società italiana. La quale quando parla (specie se parla in pubblico) s’inebria dei nobili concetti di solidarietà e di progresso, mostra regolarmente d’ispirarsi ai più alti principi dell’equità e della benevolenza sociale, ma quando invece si muove nella realtà d’ogni giorno, allora si scopre ferocemente classista, assuefatta ai privilegi come poche, spudorata cultrice di una vasta impunità.
Ernesto Galli della Loggia
Corriere della Sera, 19 settembre 2016

L’acquisto di Monsanto da parte di Bayer rende evidente chi muove le pedine in Europa

baymonChi muove i pezzi sulla scacchiera? Berlino. Dov’è il futuro? In Germania. Se osserviamo le cose che contano, alla fine bisogna sempre guardare al nord per vedere cosa accade nel domani. Bayer e Monsanto daranno vita al più grande gruppo industriale dell’agroalimentare del mondo, l’aspirina e i fertilizzanti, i fitofarmaci e la Vitamina C. I tedeschi pagheranno Monsanto 66 miliardi e avranno il controllo di un gruppo attivo in tutto il mondo. E’ il più grande take-over mai realizzato nella storia dell’industria della Germania che così muove la sua diplomazia economica, dispiega la forza della sua cultura industriale, va sempre più oltre i suoi confini, si espande e continua la sua storica ricerca di spazi. Sono strumenti di influenza diplomatica, di politica estera. L’acquisto deve superare la barriera dei regolatori anti-trust, le giurisdizioni di trenta paesi, tra cui Stati Uniti, Brasile, Canada e Unione Europea.

Non interessa gli italiani? Altro che. Bayer in Italia ha quattro siti produttivi (a Garbagnate milanese, Segrate, Filago e Nera Montoro), fattura oltre un miliardo di euro e ha 2.200 collaboratori. Monsanto è presente nel nostro paese da quarant’anni, è il leader mondiale della biotecnologia applicata all’agricoltura, il suo marchio Dekalb commercializza in Italia mais e colza per vari usi. In prima pagina la notizia è solo sul Sole 24Ore (“Bayer conquista Monsanto”) e MF (“Il terzo tentativo va a segno. Bayer conquista Monsanto con un’offerta da 66 miliardi $. Nasce gigante della chimica”), viene registrata come un fatto finanziario (e lo è) ma è soprattutto un agente della produzione nel nostro settore agricolo (dai prodotti di Bayer e Monsanto dipendono qualità e quantità dei raccolti) e un elemento di straordinaria importanza strategica per il paese chiave dell’Europa e della sua Unione, la Germania. (…..)

…. la regola è quella di una costante espansione del business tedesco in Italia. La Deutsche Borse oggi attraverso l’acquisto della Borsa di Londra controlla anche la Borsa di Milano; E.ON opera nell’energia con sei parchi eolici in Italia; Merck nel 1999 comprò un marchio storico dell’industria farmaceutica italiana, la Serono; Allianz è ai primi posti nel mercato assicurativo italiano, ha 5.500 dipendenti, 2.900 agenti, 22.000 collaboratori e oltre 1.900 promotori finanziari; Heidelberg Cement con un’offerta pubblica d’acquisto da 2 miliardi di euro (realizzata in queste ore) ha acquisito l’Italcementi della famiglia Pesenti, diventando così il primo gruppo mondiale per gli aggregati, il secondo per il cemento, con un fatturato complessivo di 18 miliardi di euro; Linde Group è il numero uno nel mondo nel settore dei gas industriali, in Italia è presente dal 1991 e nel corso degli anni ha comprato una serie di aziende strategiche, cominciò con le forniture all’Acciaieria Pittini di Trieste, è partner di Eni, è entrata nel settore dell’ossigenazione medica, nel fotovoltaico, rifornisce la stazione di idrogeno dell’Azienda dei trasporti milanese; ZF è uno dei principali fornitori mondiali di sistemi per il settore automobilistico, ferroviario e per i motori marini: freni, frizioni, sterzo, trasmissioni, sospensioni, airbag, telaio, cambio della vostra auto sono prodotti da ZF, è presente in Italia dal 1951. Quando si parla di Germania, quando si stigmatizza il cosiddetto “dominio tedesco” sull’Europa, bisognerebbe ricordare che è frutto di una politica industriale robusta, un’espansione continua sostenuta da un governo che promuove le sue imprese nel mondo, le affianca con una diplomazia silente e efficace. L’Italia? Come ha scritto Romano Prodi, qualche settimana fa sul Messaggero “l’Italia ha raggiunto l’incredibile risultato di non avere quasi più alcuna grande impresa nazionale pur essendo, per dimensione, il secondo paese industriale europeo”. La realtà, Auf Wiedersehen.

Mario Sechi

Il Foglio 15 settembre 2016

http://www.ilfoglio.it/economia/2016/09/15/monsantobayer-rende-evidente-chi-muove-le-pedine-in-europa___1-v-147505-rubriche_c383.htm

A due anni dal Jobs Act. Ecco il bilancio di una riforma costata 15 miliardi

ajbactE’ costato 15 miliardi, secondo l’Istat ha creato nell’ultimo anno 439 mila posti di lavoro e ha rivoluzionato le forme di tutela per chi è rimasto senza occupazione. Con l’affievolirsi degli sgravi contributivi, la spinta della riforma sta rallentando, nel 2017 la crescita occupazionale dovrebbe fermarsi allo 0,3 per cento. I licenziamenti sono in aumento. Per far decollare il mercato del lavoro ora si punta sulla produttività
I TICKET
Il governo esulta e parla di 585 mila nuovi posti di lavoro creati dall’insediamento, in buona parte dovuti alla riforma del lavoro che ha concesso forti sgravi contribuitivi alle aziende che assumono e praticamente annullato l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori suoi nuovi contratti. Gli ultimi dati Istat registrano 439 mila occupati in più nell’ultimo anno, 109 mila disoccupati in meno e un primo calo anche dei Neet, i ragazzi che non studiano e non lavorano: sono 252 mila in meno rispetto al secondo trimestre 2015 ma rappresentano ancora il 22,3% dei giovani tra i 15 e i 29 anni. Dati positivi sui quali però, al di là del boom di contratti a tempo indeterminato, pesa anche il minor livello qualitativo del lavoro creato: nel 2015 sono stato venduti 115 milioni di voucher, i buoni per il lavoro occasionale, che nel 2010 erano appena 10 milioni.
I CONTI
Il costo della riforma del lavoro si misura sugli sgravi contributivi riconosciuti alle aziende disposte ad assumere a tempo indeterminato. Una misura che, per il biennio 2015-16, secondo la Uil vale 20 miliardi (15 nel 2015 più 4,3 nel 2016) che al netto degli effetti fiscali (i contributi fiscalizzati non sono deducibili dal costo del lavoro) diventano 15 miliardi (11,7 nel 2015 e 3,3 per 2016). Nel 2016 i vantaggi riconosciuti all’impresa si sono praticamente dimezzati e ciò ha influito sul numeri di contratti firmati. «L’occupazione è aumentata appena qualcosa in più rispetto al Pil e a quanto assicurato da un normale turn over» commenta Guglielmo Loy segretario confederale della Uil. «Valeva la pena di fare scelte più selettive, come avevamo chiesto, premiando di più chi assume donne, giovani e punta al Sud. Con i risparmi si potevano fare più politiche attive e tagliare il cuneo fiscale».
LA NASPI
Il jobs act ha rivoluzionato la rete degli ammortizzatori sociali: è cambiata la cassa integrazione che ora ha requisiti più stringenti e dura di meno (da 36 a 24 mesi); la cassa integrazione in deroga a fine anno cesserà di esistere; i contratti di solidarietà sono rimasti, ma risultano meno convenienti per il lavoratore. Dal maggio 2015 è in vigore la Naspi (che sostituisce la precedente Aspi): può durare fino a ai 24 mesi, per accedervi bastano 13 settimane di contributi versati nei 4 anni precedenti la disoccupazione e un mese di lavoro effettuato nell’ultimo anno. L’assegno è più alto rispetto alla cig, si può arrivare fino ai 1.300 euro, con decalage del 3% al mese dopo i primi tre mesi. Per parasurbordinati e collaboratori, prima non tutelati, ora c’è la Dis-Col. La Cgil è critica: «L’offerta è incongruente rispetto alla gravità del periodo – dice Claudio Treves, segretario generale Nidil – la crisi resta e la copertura si accorcia».
LA CRESCITA
I dati del ministero del Lavoro indicano una tendenza netta: nel secondo trimestre i licenziamenti hanno raggiunto quota 221.186, in aumento del 7,4% rispetto allo stesso periodo del 2015. Calcolare quante di queste cessazioni siano imputabili al Jobs act che – per i nuovi contratti – ha praticamente annullato l’articolo 18, è difficile. Secondo il ministero, il boom di licenziamenti, è dovuto al fatto che «sono diventate pienamente operative le norme per contrastare il fenomeno delle dimissioni in bianco». Spiegazione che non convince i sindacati, sicuri che l’aumento sia legato ai maggiori costi che le nuove regole prevedono per le aziende che vogliono usufruire della cassa integrazione. Le aliquote per avere accesso all’ammortizzatore sono aumentate, il costo medio di un lavoratore in “cassa” sale a 80-90 euro al mese. Una ditta in crisi, senza prospettive immediate può decidere di chiudere direttamente il rapporto.
PREVISIONE OCSE
Il futuro del lavoro avanza a ritmo lento, troppo lento. La società di consulenza Prometeia stima uno stop alla crescita occupazionale: nel 2015 ha raggiunto lo 0,8% a fronte di un Pil in crescita dello 0,6. Per il 2016 l’occupazione è stimata al +1 % a fronte di un Pil che sale dello 0,7. Per il 2017, le previsioni saranno ufficializzate la prossima settimana, è calma piatta: l’occupazione aumenterà dello 0,3%. «È poco, ma non c’è il segno meno che tanti temevano con l’affievolirsi dei vantaggi contributivi» commenta Stefania Tomasini, responsabile della ricerca della società di consulenza. «I dati tengono conto della incertezza interna e del difficile quadro internazionale. Fino ad oggi ha pesato sopratutto la decontribuzione, d’ora in poi si capirà quanto ha contato la riforma del lavoro». L’Ocse, per l’Italia del 2017, prevede un tasso di disoccupazione del 10,5 per cento. In diminuzione, ma sempre sopra la media Ue.

Luisa Grion
La Repubblica 13 settembre 2016

La fabbrica dei somari

asini1Quando comprò i suoi primi tre somari da un contadino del Reggiano, all’inizio degli anni 90, gli asini in Italia si stavano praticamente estinguendo, perché all’agricoltura meccanizzata non servivano più a niente. Oggi Giuseppe Borghi, 71 anni, nella sua azienda agricola di Montebaducco ne ha 800 di otto razze diverse, il che ne fa l’allevamento più grande d’Europa: romagnoli, amiatini, di Martina Franca, e poi sardi, irlandesi, egiziani, spagnoli, di San Domenico, vivono in semilibertà fra stalla e colli del primo Appennino reggiano. Il latte d’asina, il più simile al latte materno della razza umana, viene munto e liofilizzato sul posto per poi essere distribuito nei negozi bio di tutta Italia – è in assoluto il più indicato per i bambini intolleranti al latte vaccino -, oppure viene usato per ricavarne dei cosmetici (qualcuno ricorda i leggendari bagni nel latte di Poppea?).
Ma non finisce qui: i ciuchi, probabilmente più intelligenti del cugino più nobile, il cavallo, e sicuramente più mansueti e affettuosi, vengono acquistati nelle strutture per anziani, oppure sono usati per la pet therapy con i disabili. C’è anche chi, avendo lo spazio, se li compra come animali da compagnia: «Un signore ne ha voluti due per festeggiare i dieci anni di matrimonio, e una ragazza l’ha chiesto come regalo di fidanzamento – racconta Borghi -. Mantenerli costa meno di un cane, bastano quattro chili di fieno e uno di farina al giorno. Noi ne vendiamo circa 200 all’anno, il prezzo varia fra i 400 e i mille euro. Oltre ai privati fra i nostri clienti ci sono case di riposo per anziani e centri per i portatori di handicap». L’anno scorso si è fatto vivo addirittura papa Francesco: «In Vaticano avevano saputo della nostra attività, così abbiamo pensato di regalare al Pontefice due asini, che adesso stanno a Castel Gandolfo. Quando ci siamo incontrati, il Papa ci ha raccontato che il suo interesse per i nostri animali è nato perché lui da bambino aveva bevuto il latte d’asina: sua madre non aveva il latte, e un tempo si rimediava così».
Del resto la passione di Giuseppe Borghi, che oggi si coccola i suoi ciuchi con amore paterno, ha origini antiche, che risalgono all’epoca in cui i somari erano una presenza necessaria in ogni fattoria: «Mio padre, che faceva il contadino, ne aveva uno che poi ha venduto quando ha preso il trattore – spiega accarezzando il testone di Willy, un maschio grigio di quattro anni accorso subito al suo richiamo -. All’inizio, quando ho pensato di cominciare ad allevarli, ho fatto fatica a rintracciarli, perché in Italia erano quasi scomparsi. Poi, uno o due alla volta, ne ho trovati in Abruzzo, in Toscana, in Sardegna, dove erano un po’ più numerosi. Nel ’96 ne avevo una cinquantina, nel 2000 abbiamo cominciato a mungerle. Ogni asina produce un litro e mezzo di latte al giorno, siamo ben lontani dalle mucche, che ne fanno 40». Ecco perché il prezzo di un litro è di 15 euro, mentre il liofilizzato raggiunge i 30.
Oggi l’azienda di Montebaducco, dal nome del colle dove i ciuchi scorrazzano in libertà prima di tornare alle stalle, è l’unica a ospitare l’intera filiera, dal foraggio naturale al confezionamento del latte liofilizzato, e per l’anno prossimo si prepara a un’altra esclusiva: «Produrremo il formaggio, una cosa non facile perché è un latte magrissimo, e siamo riusciti a trovare il caglio giusto, che è quello del cammello. Saremo pronti a metà del 2017».
Intanto le asine si mettono disciplinatamente in fila per essere avviate alla mungitura, come se qualcuno avesse detto loro che è arrivato il momento: «Glielo abbiamo insegnato e loro hanno imparato, gliel’ho detto che è un animale intelligente».
Poco lontano ecco il reparto maternità, con le esemplari gravide e le madri coi cuccioli appena nati: «A differenza di quel che avviene negli allevamenti intensivi di ovini, dove i vitelli vengono strappati alle madri appena nati, qui i piccoli restano con loro – spiega Borghi -. La qualità del latte è migliore, perché non c’è lo stress del dolore della separazione. D’altra parte, l’asina non farebbe più latte se non fosse stimolata dal piccolo».

Franco Giubilei
È diventato leader in Europa prendendo in azienda solo asini
La Stampa 13 settembre 2016