Cosa dicono davvero i dati Istat sulla ripresa

lenss IL PAESE ha finalmente ripreso a crescere; il timore della deflazione è finito. I titoli dei giornali si sprecano, ed è giusto che sia così. Il Paese ha bisogno di buone notizie e la pubblicazione dei conti economici trimestrali da parte dell’Istat permette un qualche ottimismo. Persino il Financial Times titola, “L’Italia torna in piedi”. La notizia del ritorno alla crescita mette in secondo piano addirittura le previsioni di tracollo definitivo della Grecia che in questi giorni hanno innervosito non poco i mercati, così come i timori di scoppio della presunta bolla sull’azionario in Cina.
Commentare queste notizie per un economista è sempre compito ingrato. Se il rapido ciclo delle notizie rende i giornali inclini a concentrarsi sui dati congiunturali, una prospettiva più analitica non può che soffermarsi con maggiore attenzione sulle tendenze di crescita dell’economia e quindi sulle indicazioni che le diverse componenti dei dati congiunturali permettono di trarre sulla situazione economica generale. Da questo punto di vista i dati Istat vanno purtroppo letti in modo meno trionfale di quanto non vorremmo fare.
Innanzitutto la crescita del Pil nel primo trimestre 2015 è stata dello 0,1% rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente (questa è la cosiddetta “crescita tendenziale”). Non è molto se confrontata all’1% della Germania, al 3% degli Stati Uniti, al 2,4% del Regno Unito e anche allo 0,7% della Francia. Il risultato è ancora peggiore se si tiene conto che la crisi ha colpito il nostro paese più severamente di questi altri e che quindi sarebbe naturale aspettarsi un effetto “rimbalzo” più pronunciato in Italia. L’immagine che meglio riassume la situazione economica del Paese purtroppo è quella della crescita cumulata del Pil negli ultimi 15 anni. Se il Regno Unito è cresciuto di circa il 30% e l’Eurozona di circa il 15%, l’Italia è rimasta al palo. Zero. Questo è il risultato di una combinazione di tre fattori: una minore crescita fino al 2008, una recessione più profonda fino al 2013, e una ripresa più tarda e più lenta da allora.
Una lettura più ottimistica dei nuovi dati Istat è però chiaramente possibile. I dati sulla crescita tendenziale in Italia patiscono il ritardo della ripresa, che ha notevolmente faticato negli ultimi tre trimestri del 2014. I dati di “crescita congiunturale”, relativi cioè all’ultimo trimestre, sono invece più favorevoli, sia in assoluto che relativamente agli altri paesi. L’Italia cresce dello 0,3%, come la Germania e il Regno Unito, e più degli Stati Uniti. Questi sono i dati che potrebbero farci pensare di aver svoltato l’angolo. Difficile a dirsi naturalmente: estrapolare da un trimestre in controtendenza è operazione statisticamente suicida che evito con piacere. Ma un’occhiata ai dati disaggregati è utile per cercare di farsi un’idea più precisa di cosa stia succedendo.
Innanzitutto la crescita del primo trimestre del 2015 è dovuta in misura sostanziale alla crescita degli investimenti fissi lordi e delle scorte, senza un contributo positivo dei consumi finali nazionali. La spesa delle famiglie è leggermente diminuita e quella della Pubblica Amministrazione è aumentata in pari entità percentuale. Questo non è un buon segno naturalmente, nel senso che una solida ripresa dopo una recessione è associata tipicamente ad una rinnovata fiducia dei consumatori e quindi ad una ripresa dei consumi assieme a quella degli investimenti. Anche il fatto che cresca l’Agricoltura e non i Servizi non è un buon presagio: è nei Servizi che si nascondono le maggiori opportunità di sviluppo di una economia moderna e avanzata come la nostra. Anche a “nutrire il pianeta” e produrre “energia per la vita” si arriva attraverso innovazione e tecnologia, è lì che si genera crescita.
Ma il dato più rilevante, non so dire se allarmante, è che la crescita congiunturale degli investimenti si è manifestata in larga parte nel settore Mezzi di trasporto. Sarà anche vero che quando va bene la Fiat va bene il Paese, ma una crescita più omogenea tra settori avrebbe indicato più nettamente una ripresa in atto.
Infine, è necessario anche ridimensionare i commenti sulla fine della deflazione. L’inversione di tendenza dei prezzi è dovuta in parte sostanziale al fatto che il calo dei prezzi dei beni energetici abbia rallentato notevolmente. Il deflatore della spesa delle famiglie residenti e quello degli investimenti sono calati ma non direi in modo preoccupante. La notizia rilevante riguardo ai prezzi è quindi che possibili tendenze deflattive continuino a non manifestarsi.
Riassumo quindi, per chi si fosse perso nella noiosa ma inevitabile analisi dei dati. A costo di apparire Cassandra, come spesso accade agli economisti che discutono della situazione economica del nostro Paese, i dati dell’Istat sono meno positivi di quanto non possa sembrare. Vi sono pochi dubbi che la ripresa, ammesso che sia iniziata, rimanga debole e fragile. E certo, meglio che niente, ma uno 0.1%, o 0,3% che dir si voglia, non ha un gran potere taumaturgico di per sé.

Repubblica 30 maggio 2015
Cosa dicono davvero i dati Istat sulla ripresa
di Alberto Bisin

 

Italia fuori da recessione deflazione

rippL’Italia si chiama fuori da recessione e deflazione. A mettere la parola fine davanti alle due «piaghe» dell’economia è l’Istat, che non solo registra un Prodotto interno lordo in crescita nel primo trimestre ma vede in positivo anche il secondo. «Non siamo più il malato d’Europa» dice il premier Matteo Renzi. Anzi, rilancia, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, siamo diventati «un buon esempio da seguire». Rimane invece aperta la questione lavoro, per l’Istituto di statistica infatti l’occupazione ancora «non ha mostrato chiari segnali di inversione di tendenza». Di certo sul fronte lavoro il Governo punterà ancora sulla detassazione, che Padoan dà per confermata anche nella «prossima legge di Stabilità». La raffica di dati e stime dell’Istat è stata quindi caratterizzata dal segno più: dal Pil di gennaio-marzo, certificato a +0,3%, l’aumento più significativo da quattro anni, alla proiezione di quel che sarà tra aprile e giugno (+0,2%). Due rialzi consecutivi che decreterebbero la fine della fase recessiva anche in termini tecnici. Per ora però sul secondo trimestre ci sono solo anticipazioni, aprile avrebbe fatto segnare «un balzo in avanti» ma occorre vedere con che ritmo la spinta proseguirà. Il contributo più importante è atteso dall’export che invece non è stato d’aiuto nel primo trimestre. Hanno tradito le aspettative pure i consumi, con la spesa delle famiglie arretrata, seppure di poco, dopo sei rialzi consecutivi. A fare da traino all’economia come non accadeva da anni sono stati invece gli investimenti (grazie al boom registrato per i mezzi di trasporto).  Guardando ai macro settori, sempre nel primo trimestre molto bene è andata l’agricoltura che ha recuperato le perdite accusate nei mesi precedenti. Un effetto rimbalzo si è verificato anche sul fronte scorte (a conclusione del 2014 i magazzini si erano svuotati). Ecco che alla fine l’Istat ha anche alzato le stime sul Pil tendenziale (da zero a +0,1%). Dietro l’uscita dal tunnel della deflazione, era da inizio anno che i prezzi non facevano altro che scendere, c’è invece lo zampino dell’energia: a maggio il ridimensionamento dello sconto carburanti risolleva l’indice generale, che si riporta così ai livelli di sei mesi prima (+0,2% e +0,8% per il “carrello della spesa”). …. http://www.lastampa.it/2015/05/29/economia/italia-fuori-dalla-deflazione-a-maggio-prezzi-9kZt6diNLXBhwQjEVity6O/pagina.html

Più disoccupati e più Neet

L’Italia è l’ultimo paese dell’area Ocse per occupazione giovanile: appena il 52,8% dei giovani tra i 25 e i 29 anni ha un’occupazione, contro una media pari nell’area al 73,7%.

È quanto emerge dal rapporto dell’organizzazione di Parigi `Oecd skills outlook 2015´, dedicato alle problematiche dell’occupazione giovanile. Penultima e terzultima in classifica sono rispettivamente Spagna (58,1%) e Slovacchia (66,9%). Il paese con la maggior percentuale di giovani occupati è invece l’Olanda (81,7%), seguita da Austria (81,4%) e Giappone (81,2%).

In Europa peggio dell’Italia solo la Grecia che però non è inclusa nella classifica Ocse. Ma non solo.

In Italia aumentano anche i giovani inattivi, i cosiddetti «Neet», che non sono nè occupati, nè a scuola o in formazione. Come sottolinea lo studio Ocse, sono oltre 35 milioni nei Paesi industrializzati i giovani usciti dal radar del sistema d’istruzione o del mercato del lavoro. Ma l’Italia è tra i Paesi in cui sono più numerosi: nel 2013 i «Neet» sono arrivati arrivati al 26,09% degli under 30, quarto dato più elevato tra i Paesi Ocse con un incremento di 5 punti percentuali rispetto al 2008. La Penisola è così al quarto posto tra i 34 Paesi Ocse per i giovani inattivi, dopo Turchia, Grecia e Spagna e a fronte di una media Ocse del 15%. ……

 

http://www.corriere.it/economia/15_maggio_27/giovani-lavoro-italia-maglia-nera-secondo-l-ocse-25percento-inattivo-9e885d34-0448-11e5-8b0b-0cc2990e0043.shtml

Il debito non fa più paura

 

 

debt pblLe condizioni economiche e il Quantitative easing della Banca centrale europea ci offrono per quasi due anni uno scenario favorevole per riforme strutturali che innalzino il tasso di crescita e che quindi possono ridurre lo stock di debito. Non vale più la relazione alto debito, alta crescita: la nuova politica economica può essere sintetizzata nello schema: 2/2/2. Vale a dire, 2 per cento di crescita, 2 per cento di inflazione e 2 per cento di disavanzo complessivo. Di questi temi si è discusso ieri a Roma durante un seminario organizzato da Crusoe e dall’associazione Crusoe e dal centro di ricerca economica Cerm sul risanamento della finanza pubblica in Italia alla presenza del ministro dell’Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, e del giudice costituzionale Giuliano Amato, presente anche il commissario governativo alla revisione della spesa Yoram Gutgeld.
La riduzione del debito pubblico resta la priorità essenziale per il nostro paese. I governi italiani da circa venticinque anni hanno effettuato sforzi notevoli per ridurre il debito e il disavanzo pubblico ed effettuato manovre di aggiustamento molto serie e impegnative; ma al di là di miglioramenti anche significativi – ma non sempre duraturi – il problema è ancora lì. Si sono raggiunti infatti indubbi progressi e si sono messe in campo misure importanti, ma anche a causa della crisi finanziaria del 2009 e del 2011, il debito negli ultimi anni è ripreso a salire e ha superato il 130 per cento del pil.

I dati essenziali sono chiari: al dicembre 2014, il debito pubblico delle amministrazioni pubbliche era pari a 2.135 miliardi di euro, quindi circa 36.000 euro per italiano. Di questi 2.135, 2.047 miliardi sono il debito delle amministrazioni Centrali (95,9 per cento) mentre 140 appartiene a quelle locali (4,1 per cento). Il debito lordo (senza detrarre le attività finanziare) è per il 64,4 per cento detenuto da italiani, mentre il 35,6 è detenuto all’estero (era 51,4 per cento nel 2006). La duration è aumentata in tempi recenti arrivando a 5,7 anni.

La storia e la teoria economica non ci forniscono un criterio assoluto per decidere quando un debito pubblico è troppo alto. La regola economica essenziale dimostra che la capacità di ripagare il debito dipende, non tanto dal valore del rapporto debito/pil ma dall’evoluzione di questo rapporto, anche a valori relativamente elevati. Infatti, data la differenza tra tasso di interesse reale e tasso di crescita reale del pil, ad essere cruciale è l’avanzo primario (la differenza tra entrate tributarie e spesa pubblica al netto del pagamento degli interessi) e ovviamente il tasso di crescita reale dell’economia. La mancanza di una regola e di un limite preciso non impediscono però che, di fatto, esista una regola di buon senso: la sensazione cioè che, al di là di un certo valore relativamente elevato, ci si trovi in una situazione difficile e che qualcosa potrebbe accadere… ma non è possibile sapere cosa e quando…

Naturalmente, molto importanti sono la dimensione del debito, la sua crescita nel tempo, la dimensione dell’avanzo primario. In Italia adesso il rapporto debito/pil è elevato sia rispetto alla sua storia, sia rispetto ai confronti internazionali. La storia presenta casi molto diversi: nel Regno Unito è stato superiore al 100 e anche al 200 per cento in alcune fasi storiche. In Francia nel 1922, il rapporto raggiunse il 180 per cento e restò sopra il 100 per cento fino al 1930. Negli Stati Uniti dopo la Seconda guerra mondiale, rimase sopra al 100 per cento fino al 1950. L’Italia ha raggiunto valori come quelli attuali tra il 1870 e il 1880, tra il 1925 e il 1936, e alla fine della Seconda guerra mondiale. Nel primo caso fu l’inflazione, durante il fascismo due consolidamenti forzosi, e tra il 1947 e il 1952 furono ancora l’inflazione e la crescita forte del pil nominale a far ridurre drasticamente il valore reale del debito. L’Argentina e altri paesi sono andati in default con valori inferiori a 100 per cento, mentre non si parla negli stessi termini del debito pubblico lordo del Giappone, pur con rapporto rispetto al pil del 250 per cento circa.

La storia e la teoria dimostrano che vi sono 4 metodi per ridurre il debito pubblico: a) l’inflazione b) un default; c) un’imposta straordinaria/patrimoniale; infine, d) il perseguimento di avanzi primari consistenti per molti anni, ovvero il rimborso.

La monetizzazione del debito e il default ci sono ovviamente preclusi nel contesto economico attuale europeo: i costi economici e politici sarebbero insostenibili.

Un’imposta patrimoniale sarebbe ipoteticamente possibile, data l’elevata ricchezza finanziaria netta degli Italiani, concentrata soprattutto in attività reali. Ma è emerso dal seminario che non è più tempo di misure straordinarie. Infatti, gli effetti depressivi, distributivi e il danno che arrecherebbe alla reputazione dello stato le rendono impercorribili. Peraltro in questi anni, le politiche di tassazione immobiliare e del risparmio gestito hanno di fatto già comportato elementi di un’imposta patrimoniale.

Resta quindi la quarta soluzione: quella del perseguimento di avanzi primari consistenti e duraturi. L’avanzo primario potrebbe naturalmente essere accompagnato da cessioni del patrimonio mobiliare e immobiliare pubblico, come anche dalla razionalizzazione delle spese fiscali, troppo elevate e spesso forme di sussidio a lobbies e gruppi di interesse.

La via maestra è dunque la riorganizzazione della spesa pubblica, che se perseguita con efficacia – adozione di costi standard sulla sanità, riforma efficace della pubblica amministrazione, riduzione delle partecipate locali – consentirà la riduzione della pressione fiscale.

Non ci sono scorciatoie, né soluzioni magiche: è necessario instradarsi su un sentiero di riduzione progressiva dello stock di debito. Per fare questo serve dunque innalzare in modo duraturo il tasso di crescita dell’economia, che è anche la soluzione più efficiente per ridurre il rapporto debito/pil.

Mauro Marè

Il Foglio 25 maggio 2015

http://www.ilfoglio.it/economia/2015/05/24/perch-il-debito-non-fa-pi-paura___1-v-129065-rubriche_c319.htm

L’ascensore sociale funziona al contrario

elevator3La società italiana scivola verso il basso. Spinta dalla crisi, che dal 2008 ha investito l’economia globale  –  e nazionale. Non è tanto e solo l’andamento dei redditi e del mercato del lavoro, a rivelarlo. Anche se, nell’ultimo anno, in metà delle famiglie qualcuno ha perduto il lavoro oppure l’ha cercato senza esito (indagine Demos-Coop, aprile 2015). Il problema è che, al di là della “condizione”, misurata dalle statistiche socioeconomiche, il declino ha colpito, in modo sensibile, anche la “percezione”. Ha, cioè, modificato sensibilmente il modo di guardare la realtà intorno a noi e di rappresentare, anzitutto, noi stessi.

Come si è detto in altre occasioni, l’ascensore sociale, in Italia, si è bloccato. E gran parte degli italiani ha smesso di attendere che riparta. E oggi è, invece, impegnata a frenare, se non a bloccare, la marcia del “discensore sociale”. Dal quale sono in molti, la maggioranza, a sentirsi trasportati, meglio: trascinati. Verso il basso. Ma la percezione delle cose e di noi stessi è difficile da modificare. Molto più della realtà stessa. Perché ci vuole tempo prima di “credere” che il lavoro e il reddito abbiano ripreso a crescere. E che, di conseguenza, si possa guardare di nuovo il futuro con minore pessimismo del passato. Malgrado l’Istat e l’Ocse, oltre al nostro governo, segnalino una ripresa della nostra economia, i consumi, continuano, infatti, a stagnare. Perché gli italiani non si fidano. Del futuro. Del “proprio” futuro. E preferiscono risparmiare, piuttosto che consumare. Per prudenza.

TABELLE

Di certo, è finita l’epoca della “cetomedizzazione”. Termine ostico, ma sicuramente efficace, con il quale Giuseppe De Rita, negli anni Novanta, ha definito la tendenza della società italiana a ridimensionare il peso delle èlite, ma soprattutto degli strati più bassi. E, dunque, ad allargare i confini della “società di mezzo”. Oggi, invece, la società italiana si è “operaizzata“. Oltre la metà degli italiani, per la precisione: il 52%, si colloca nei “ceti popolari” o nella “classe operaia”. Mentre il 42% si sente “ceto medio”. Nel 2006, dunque: poco meno di dieci anni fa, il rapporto fra queste posizioni  –  e visioni  –  risultava rovesciato. Il 53% degli italiani si definiva “ceto medio” e il 40% classe operaia (o “popolare”). Nel 2008, mentre la crisi incombeva, peraltro, le posizioni apparivano più vicine. Ma il ceto medio, in Italia, prevaleva ancora, seppur di poco, sulla classe operaia: 48 a 45%. Questa tendenza ha investito un po’ tutte le professioni e tutte le categorie. Non solo quelle che erano già, di fatto, “classe operaia”. I lavoratori dipendenti. Ma ha coinvolto anche altre figure, catalogate, tradizionalmente, nella “piccola borghesia” (come ha fatto Paolo Sylos Labini, nel suo classico “Saggio sulle classi sociali”, pubblicato nel 1988 e di prossima ri-edizione, sempre per i tipi di Laterza). In particolare, i lavoratori autonomi e i piccoli imprenditori. Ancora nel 2008, il 60% di essi si sentiva “ceto medio”, il 34%, poco più di metà, classe operaia. Oggi, però, questa distanza si è sensibilmente ridotta. Perché il 40% dei lavoratori autonomi e in-dipendenti si sente “classe operaia”. Il 54% ceto medio…..

Così, in Italia avanza una società “operaia”. Che vive con una certa preoccupazione e un certo risentimento questa condizione  Perché aveva creduto alla promessa berlusconiana di un futuro da “imprenditori” per tutti. Attraverso il passaggio “intermedio” del “ceto-medio”. Ma oggi, che la crisi ha dissolto il sogno-ceto-medio, per molti è faticoso rassegnarsi al risveglio-operaio.

Ilvo Diamanti

Repubblica 25 maggio 2015

http://www.repubblica.it/politica/2015/05/25/news/l_ascensore_sociale_funziona_al_contrario_ora_il_ceto_medio_si_sente_classe_operaia-115182379/

 

I RISCHI DI CHI DECIDE SENZA DELIBERARE

 

demdirLa crisi economica ha cambiato il carattere e lo stile delle democrazie europee. Ha messo in discussione il rapporto tra deliberare e decidere facendo pendere il piatto della bilancia dalla parte degli esecutivi, come ha ricordato Marc Lazar su questo giornale. L’amichevole inimicizia tra deliberazione e decisione è proverbiale nella democrazia, che i detrattori hanno per secoli identificato con la perdita di tempo in chiacchiere, il troppo deliberare e poco decidere. Queste sono le opinioni ingenerose e non provate dei suoi detrattori. La decisione nelle democrazie è un momento finale, mai ultimo, di un processo deliberativo al quale partecipa, direttamente e indirettamente, un numero ampio di soggetti, singoli e collettivi. Nei governi rappresentativi la deliberazione è un gioco complesso che si avvale sia della selezione dei rappresentanti sia di un rapporto permanente del Parlamento con la molteplicità delle opinioni che animano la società. Se le elezioni concludono temporaneamente il flusso deliberativo, la discussione non è tuttavia mai interrotta né lo sono la riflessione ragionata del pubblico e l’influenza che i cittadini cercano di esercitare sulle istituzioni. La deliberazione non ostacola o ritarda la decisione, quindi, ma la incalza, la prepara e la cambia.

I pensatori democratici si trovano in disaccordo sull’intensità di questa tensione e sull’ampiezza dell’apporto deliberativo a elezioni concluse. Quarant’anni fa, nel 1975, la Commissione Trilaterale (ispirata da Samuel Huntington) pubblicava il suo primo rapporto sulla “governabilità” nei Paesi occidentali dal titolo eloquente, “La crisi della democrazia”. Il rapporto diceva, in sostanza, che la governabilità è messa a rischio dalla troppo ampia deliberazione, dai movimenti per i diritti civili e sociali e dalle richieste che questi rivolgono ai governi, i quali per mantenere il consenso dei cittadini sono indotti ad ampliare il loro intervento sociale così da generare una spirale di nuove richieste. Secondo Huntington, gli Stati democratici stavano perdendo autorità a causa del peso troppo forte rivendicato dal pluralismo sociale: era questa la crisi di governabilità decretata dalla Trilaterale, che suggeriva agli Stati occidentali (soprattutto quelli a democrazia parlamentare) di rafforzare gli esecutivi, deprimere lo stato sociale, contenere la contestazione e i movimenti. “Eccesso di democrazia” era il problema: come nel mercato così anche nella politica, un’alta partecipazione era indice di un forte bisogno; ma contrariamente al mercato, in politica questo attivismo era segno di instabilità. All’opposto stava l’apatia, indice di soddisfazione.

La concezione deliberativa della democrazia, associata a Jürgen Habermas e alla teoria critica francofortese, prese corpo proprio in quegli anni, discutendo sul significato della “crisi” e della governabilità, e contestando la visione minimalista del processo decisionale. Deliberare era più che votare; aveva un significato ampio, proprio come i critici della Trilaterale avevano temuto: la decisione per Habermas è una conclusione temporanea di un processo al quale in modo diretto e indiretto partecipa una pluralità di attori sociali e politici. Una società civile vibrante e non apatica è il segno non di una crisi di governabilità ma di una forte legittimità del sistema perché la decisione, ottenuta comunque a maggioranza, viene percepita da tutti non come un esito divisivo di una parte contro l’altra.

In Europa, la visione deliberativa ha caratterizzato la natura della democrazia nei decenni a partire dagli anni Settanta, mettendo a segno importanti risultati in termini di politiche sociali nazionali e di impulso alla costruzione dei trattati costituzionali dell’Unione Europea. Il suo declino, che la crisi economica ha accelerato, corrisponde oggi a un’impennata della volontà decisionale degli esecutivi sia nazionali che comunitari, e a un desiderio di allentare i lacci imposti dalla deliberazione, parlamentare e sociale, e di alleggerire l’impegno dei governi nelle politiche sociali. A livello europeo, questo cambio di passo è stato impresso dalla pratica dei trattati inter-governativi che hanno depresso la consuetudine comunitaria e, nello stesso tempo, esaltato il ruolo degli esecutivi degli Stati. La sterzata verso un federalismo di e tra esecutivi, con credenziali democratiche deboli, ha avuto un effetto a valanga negli Stati membri. La crisi sembra rilanciare il progetto della Trilaterale, dunque. Mette al tappeto la democrazia deliberativa decretando la centralità del potere di decisione dei governi centrali. Si tratta di vedere se la democrazia decisionista ci darà più efficienza nel rispetto dei fondamenti democratici, meno sprechi e meno corruzione, come promette di fare.

Nadia Urbinati

I RISCHI DI CHI DECIDE SENZA DELIBERARE
Repubblica 22 maggio 2015

La Trilaterale

http://trilateral.org/

J.Habermas

http://www.habermasforum.dk/

Ti senti ricco o povero?

ocse reddCosa ne pensi del tuo reddito familiare? Ti senti ricco, povero o nella media? Spesso non abbiamo idea, o abbiamo un’idea sbagliata, di dove ci collochiamo rispetto al resto della popolazione del nostro Paese. In 10 clic ora puoi scoprire quante famiglie stanno meglio o peggio della tua, e vedere se il tuo mondo ideale corrisponde alla realtà.

Il calcolatore è stato elaborato dall’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico

 

 

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-05-21/ti-senti-ricco-povero-o-media-l-ocse-ti-aiuta-scoprirlo-10-clic-185359.shtml?uuid=

Ecco il simulatore OCSE

http://24o.it/links/?uri=http://bd9da336ae.url-de-test.ws/index_it.php&from=Ti+senti+ricco%2C+povero+o+nella+media%3F+L%E2%80%99Ocse+ti+aiuta+a+scoprirlo+in+10+clic

Banconote immateriali

 

 

doolllllLA LEGGE di Moore non è mai stata approvata in Parlamento, neanche con la fiducia, ma è pienamente in vigore e i suoi effetti sono ovunque: prevede che la potenza dei microprocessori raddoppi ogni diciotto mesi. La progressione della tecnologia accelera a una rapidità esponenziale, penetra nelle nostre vite, cancella abitudini e interi settori industriali, ma ne crea di nuovi capaci di una crescita esplosiva.

È successo anni fa alla musica, che si è progressivamente smaterializzata fino a entrare nei cellulari, ma ora sta per succedere al denaro. In questi giorni il governo danese ha proposto una misura che forse in futuro verrà ricordata come il punto di non ritorno: nel 2016, commercianti e imprese avranno diritto per legge di rifiutare pagamenti in monete e banconote di carta o in metallo. Ad eccezione di medici, dentisti, negozi di alimentari e pochi altri servizi essenziali, sarà obbligatorio saldare con un mezzo elettronico se richiesto da chi incassa. Banche e imprese potranno risparmiare i rischi e le spese, molto ingenti, che ora sostengono per gestire e trasportare il denaro fisico.

Non è del tutto una novità, ovviamente. Già oggi in Svezia gli autobus non accettano pagamenti in contanti e la diffusione di carte digitali di ogni tipo, con il rarefarsi della moneta fisica in circolazione, fa sì che le rapine di banca siano crollate da 110 nel 2008 a 16 nel 2011.
In Canada la banca centrale ha smesso un anno e mezzo fa di stampare banconote, anche per incoraggiare i pagamenti con carta.
In Kenya un terzo della popolazione è abbonato a M-Pesa, il sistema di bonifici via telefono con cui si versano salari o bollette, da poco esportato anche in Romania.
E persino in Somaliland, tra Etiopia, Somalia e Eritrea, nel 2012 il numero di pagamenti via telefonino è stato pari a quello di pagamenti per carta di credito in Italia nel 2013: in entrambi i casi, 34 per abitante.
Ma c’è sempre un momento in cui tutto accelera e la qualità tecnologica cambia. Nella musica la Sony incastonò i compact disk in piccoli lettori con cui si poteva correre nel parco, ma pochi anni dopo la Apple di Steve Jobs distrusse quel modello con l’iPod: il contenuto non solo diventava più piccolo, ma si smaterializzava e portava con sé nuovi modi di ascoltare, produrre e vendere una canzone.
Con il denaro sta succedendo lo stesso, e la sola certezza è che abbiamo visto solo l’inizio. In Italia, per la verità, giusto quello. Con la Grecia, questo resta il Paese nel quale le transazioni elettroniche rappresentano la quota più bassa in Europa: appena il 13% del totale, contro una media del 40%. Nel frattempo però c’è un italiano che sta già guidando quella che ha tutta l’aria di essere la prossima rivoluzione tecnologica nel denaro immateriale, così come l’innovazione dei lettori digitali in Mp3 presero il posto di quelli di compact disk.
Per ora la moneta elettronica è sempre stata «scritturale»: un pagamento con bancomat in pizzeria corrisponde a una modifica nelle scritture contabili su due conti, di chi paga e di chi è pagato. In questo caso ogni transazione implica un passaggio dal sistema bancario. Roberto Giori, un imprenditore italo-svizzero erede di una dinastia di grandi produttori di macchine per la stampa di banconote, ha sviluppato un algoritmo per portare la smaterializzazione del denaro un passo più in là: non più con trasferimento fra due conti bancari, come accade con Visa, M-Pesa, Pay-Pal o la rete Bancomat, ma con la digitalizzazione della moneta «fiduciaria ». Nel progetto di Giori, ormai in fase di lancio, diventano immateriali le banconote stesse emesse dalla banca centrale.
L’autore del progetto conosce questo mondo da sempre: la De la Rue Giori, il gruppo di macchine da stampa di carta moneta che lui stesso ha gestito fino al 2001, controllava fino a pochi anni fa il 90% del giro d’affari globale delle macchine da stampa di denaro. Vi hanno fatto ricorso la Federal Reserve per i dollari, l’Italia, la Francia, il Giappone e centinaia di Paesi a ogni livello di reddito. Da qualche anno però Giori ha venduto l’azienda e ha sviluppato un nuovo modello di emissione di moneta digitale da parte delle banche centrale. Ogni banconota è numerata e tracciabile, mentre gli enormi costi di produzione e distribuzione materiale del denaro (100 miliardi l’anno nel mondo) vengono azzerati. Basta un numero di cellulare, e diventa possibile spostare con i gesto del dito sul touchscreen le banconote ridotta a icona al destinatario. Non c’è passaggio fra i conti bancari, è semplicemente un pagamento in moneta immateriale.
L’Uruguay sta sperimentando il “Giori Digital Money” e intende introdurlo in circolazione in autunno. Equador e Bangladesh

hanno reso legale l’emissione di banconote elettroniche, nelle Filippine il progetto è allo studio. Sono più avanti della Danimarca. Forse perché chi arriva dopo, salta direttamente alla tappa successiva: magari in futuro succederà anche all’Italia.
Parte dalla Danimarca la crociata anti-cash: ora il denaro è virtuale
Federico Fubini – Repubblica

Raccomandazioni all’Italia

flageuroppSei raccomandazioni, e uno sconto sul deficit. L’Italia, incassa la flessibilità richiesta grazie a «un Def abbastanza ambizioso», ma l’Europa chiede «l’intensa» agenda di riforme venga portata a termine.

In particolare, il vicepresidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis parla di «misure importanti», ma non nasconde «le debolezze ancora da affrontare». Quali sono i nodi da sciogliere? Tra i capitoli che il governo Renzi dovrà affrontare ci sono i decreti attuativi sul fisco, misure per rafforzare le banche entro la fine del 2015, riforme istituzionali, della Pubblica Amministrazione. Bruxelles chiede anche interventi per ridurre la lunghezza dei processi civili, un piano per i porti e la logistica e misure per il lavoro.

Resta, ovvio, il nodo pensioni. «Non abbiamo cambiato idea dal 25 febbraio, confermiamo la decisione presa allora di non aprire una procedura» per debito eccessivo aggiunge il commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici.

http://www.lastampa.it/2015/05/13/economia/flessibilit-litalia-incassa-il-via-libera-ue-UM1VhgJV6evQY8o6in1JvL/pagina.html

http://www.corriere.it/economia/15_maggio_13/ue-sei-raccomandazioni-all-italia-privatizzazioni-fisco-debito-lavoro-e2241778-f975-11e4-997b-246d7229677f.shtml

Latouche a Bergamo

decr3es“La globalizzazione è mercificazione”. Peggio: “Il libero scambio è come la libera volpe nel libero pollaio“. E ancora: “L’Expo è la vittoria delle multinazionali, non certo dei produttori”. Serge Latouche, francese, classe 1940, è l’economista-filosofo teorico della decrescita felice, dell’abbondanza frugale “che serve a costruire una società solidale”. Un’idea maturata anni fa in Laos, “dove non esiste un’economia capitalistica, all’insegna della crescita, eppure la gente vive serena”.

Di più: la decrescita felice è una delle strade che portano alla pace. E Latouche ne parlerà il 12 maggio al Bergamo Festival (dall’8 al 24 maggio) dedicato al tema “Fare la pace”, anche attraverso l’economia. L’economista francese, in particolare, si concentrerà sulla critica alle dinamiche del capitalismo forzato che allarga la distanza fra chi riesce a mantenere il potere economico e chi ne viene escluso. Ecco perché, secondo Latouche, la decrescita sarebbe garanzia e compensazione di una qualità della vita umana da poter estendere a tutti. Anche per questo “considerare il Pil non ha molto senso: è funzionale solo a logica capitalista, l’ossessione della misura fa parte dell’economicizzazione. Il nostro obiettivo deve essere vivere bene, non meglio”.

Abbiamo sempre pensato che la pace passasse per la crescita e che le recessioni non facessero altro che acuire i conflitti. Lei, invece, ribalta l’assioma.
Fa tutto parte del dibattito. Per anni abbiamo pensato proprio che la crescita permettesse di risolvere più o meno tutti i conflitti sociali, anche grazie a stipendi sempre più elevati. E in effetti abbiamo vissuto un trentennio d’oro, tra la fine della Seconda guerra mondiale e l’inizio degli anni Settanta. Un periodo caratterizzato da crescita economica e trasformazioni sociali di un’intensità senza precedenti. Poi è iniziata la fase successiva, quella dell’accumulazione continua, anche senza crescita. Una guerra vera, tutti contro tutti.

Una guerra?
Sì, un conflitto che ci vede contrapposti gli uni agli altri per accumulare il più possibile, il più rapidamente possibile. E’ una guerra contro la natura, perché non ci accorgiamo che in questo modo distruggiamo più rapidamente il pianeta. Stiamo facendo la guerra agli uomini. Anche un bambino capirebbe quello che politici ed economisti fingono di non vedere: una crescita infinita è per definizione assurda in un pianeta finito, ma non lo capiremo finché non lo avremo distrutto. Per fare la pace dobbiamo abbandonarci all’abbondanza frugale, accontentarci. Dobbiamo imparare a ricostruire i rapporti sociali.

Un cambio rotta radicale. Sapersi accontentare, essere felici con quello che si ha non è certo nel dna di una società improntata sulla concorrenza. 
E’ evidente che un certo livello di concorrenza porti beneficio a consumatori, ma deve portarlo a consumatori che siano anche cittadini. La concorrenza non deve distruggere il tessuto sociale. Il livello di competitività dovrebbe ricalcare quello delle città italiane del Rinascimento, quando le sfide era sui miglioramenti della vita. Adesso invece siamo schiavi del marketing e della pubblicità che hanno l’obiettivo di creare bisogni che non abbiamo, rendendoci infelici. Invece non capiamo che potremmo vivere serenamente con tutto quello che abbiamo. Basti pensare che il 40% del cibo prodotto va direttamente nella spazzatura: scade senza che nessuno lo comperi. La globalizzazione estremizza la concorrenza, perché superando i confini azzera i limiti imposti dalla stato sociale e diventa distruttiva. Sapersi accontentare è una forma di ricchezza: non si tratta di rinunciare, ma semplicemente di non dare alla moneta più dell’importanza che ha realmente.

I consumatori però possono trarre beneficio dallo concorrenza.
Benefici effimeri: in cambio di prezzi più bassi, ottengono salari sempre più bassi. Penso al tessuto industriale italiano distrutto dalla concorrenza cinese e poi agli stessi contadini cinesi messi in crisi dall’agricoltura occidentale. Stiamo assistendo a una guerra. Non possiamo illuderci che la concorrenza sia davvero libera e leale, non lo sarà mai: ci sono leggi fiscali e sociali. E per i piccoli non c’è la possibilità di controbilanciare i poteri. Siamo di fronte a una violenza incontrollata. Il Ttip, il trattato di libero scambio da Stati Uniti ed Europa, sarebbe solo l’ultima catastrofe: il libero scambio è il protezionismo dei predatori.

Come si fa la pace?
Dobbiamo decolonizzare la nostra mente dall’invenzione dell’economia. Dobbiamo ricordare come siamo stati economicizzati. Abbiamo iniziato noi occidentali, fin dai tempi di Aristotele, creando una religione che distrugge le felicità. Dobbiamo essere noi, adesso, a invertire la rotta. Il progetto economico, capitalista è nato nel Medioevo, ma la sua forza è esplosa con la rivoluzione industriale e la capacità di fare denaro con il denaro. Eppure lo stesso Aristotele aveva capito che così si sarebbe distrutta la società. Ci sono voluti secoli per cancellare la società pre economica, ci vorranno secoli per tornare indietro.

Oggi preferisce definirsi filosofo, ma lei nasce come economista.
Sì, perché ho perso la fede nell’economia. Ho capito che si tratta di una menzogna, l’ho capito in Laos dove la gente vive felice senza avere una vera economia perché quella serva solo a distruggere l’equilibrio. E’ una religione occidentale che ci rende infelici.

Eppure ai vertici della politica gli economisti sono molti.
E infatti hanno una visione molto corta della realtà. Mario Monti, per esempio, non mi è piaciuto; Enrico Letta, invece, sì: ha una visione più aperta, è pronto alla scambio. Io mi sono allontanato dalla politica politicante, anche perché il progetto della decrescita non è politico, ma sociale. Per avere successo ha bisogno soprattutto di un movimento dal basso come quello neozapatista in Chiapas che poi si è diffuso anche in Ecuador e in Bolivia. Ma ci sono esempi anche in Europa: Syriza in Grecia e Podemos in Spagna si avvicinano alla strada. Insomma vedo molto passi in avanti.

A proposito, Bergamo è vicina a Milano. Potrebbe essere un’occasione per visitare l’Expo.
Non mi interessa. Non è una vera esposizione dei produttori, è una fiera per le multinazionali come Coca Cola. Mi sarebbe piaciuto se l’avesse fatto il mio amico Carlo Petrini. Si poteva fare un evento come Terra Madre: vado sempre a Torino al Salone del Gusto, ma questo no, non mi interessa. E’ il trionfo della globalizzazione, non si parla della produzione. E poi non si parla di alimentazione: noi, per esempio, mangiamo troppa carne. Troppa e di cattiva qualità. Ci facciamo male alla salute. Dovremmo riscoprire la dieta meditterranea. Però, nonostante tutto, sul fronte dell’alimentazione vedo progressi. Basti pensare al successo del movimento Slow Food.

http://www.repubblica.it/economia/2015/05/10/news/latouche_decrescita_felice-113782708/?ref=twhr&utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter

Inconsistenze teoriche e limiti pratici della “decrescita felice”

http://www.ilfoglio.it/articoli/2014/10/01/latouche-inconsistenze-teoriche-e-limiti-pratici-della-decrescita-felice___1-v-121483-rubriche_c262.htm

Movimento per la decrescita felice

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