Paperon de’ Paperoni e il suo ‘antenato’ vissuto nel Medioevo

Che nesso c’è fra Paperon de’ Paperoni, il noto personaggio Disney, e quel meno famoso (almeno ai più) Paparone de Paperonibus nobile ecclesiastico del Duecento durante i pontificati di Papa Clemente IV e Papa Onorio IV, nominato prima vescovo di Foligno e poi eletto vescovo di Spoleto? Il quotidiano della Santa Sede, L’Osservatore Romano, ‘gioca’ con i nomi e sottolinea le somiglianze ‘anagrafiche’ (e non solo) tra il fanta-miliardario ideato dal fumettista americano Carl Barks nel 1947 e l’uomo di Chiesa vissuto nel Medioevo, con due interventi dell’arcivescovo di Benevento Felice Accrocca e dello scrittore Dario Fertilio.

La genealogia tratta non dal celebre fumetto “Storia e gloria della dinastia dei paperi”, ma dal ben più autorevole ‘Hierarchia Catholica’ di Konrad Eubel, riporta di un vescovo Paparone nella diocesi umbra, appartenente alla ricca famiglia romana dei Papareschi vissuta nel rione di Trastevere a partire dalla prima metà del XII secolo e ancora presente negli stradari capitolini. Il religioso venne iscritto poi nell’ordine dei domenicani come proveniente dalla famiglia de Paparonibus o de Paperonibus e successivamente indicato nel palazzo arcivescovile di Spoleto con il nome di Paparonus de Paparonis.

“Lo si ritrova effigiato nei ritratti settecenteschi dei vescovi cittadini nel palazzo arcivescovile di Spoleto – spiega monsignor Accrocca – dov’è indicato con il nome di Paparone de Paparoni e lo si dice traslato, nel 1285, da Onorio IV, da Foligno a Spoleto, e poi morto nel 1290: F. Paparonus de Paparonis Romanus, Ordinis Praedicatorum, anno MCCLXXXV ab Honorio IV e Fulginatensi ad hanc translatus, obyt a. MCCXC”.

Al nome del vescovo, si ipotizza, potrebbe essersi ispirato nel 1952 Guido Martina, traduttore per la Mondadori delle storie dei personaggi Disney i cui nomi americani venivano poi ‘reinventati’ in italiano: come Mickey Mouse divenne Topolino e Donald Duck fu Paperino, così il cittadino più influente di Paperopoli Uncle Scrooge, a sua volta ispirato all’avaro del ‘Canto di Natale’ di Charles Dickens, sarebbe diventato, grazie all’erudizione medievale del suo traduttore italiano, Zio Paperone ovvero Paperon de’ Paperoni.

“Chi l’avrebbe mai detto – conclude l’arcivescovo di Benevento – a un frate e vescovo del XIII secolo, che il suo nome potrebbe essere servito un giorno a risolvere ben altri problemi rispetto a quelli ai quali era aduso e che il suo ricordo sarebbe stato alimentato dai fumetti della Disney”.

Google, multa Ue di 4,3 miliardi

Nuova multa record per Google dalla Commissione Ue, la più alta mai comminata. Il motore di ricerca, che è riuscito a schivare le accuse di Bruxelles, dovrà pagare 4,3 miliardi di euro per aver abusato della posizione dominante del suo sistema operativoAndroid. La sanzione ammonta a quasi il doppio di quella, già rilevante, che la Ue inflisse a Google lo scorso anno: 2,4 miliardi di euro per aver favorito il suo servizio di comparazione di prezzi Google Shopping a scapito degli altri competitor.

La Commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager ha annunciato le motivazioni della Commissione in una conferenza stampa. Il caso Android è nel mirino di Bruxelles dal 2015. Dopo un anno di indagini, nel 2016 Google fu accusata formalmente di aver obbligato i produttori di smartphone, come Samsung o Huawei, a pre-installare Google Search e a settarlo come app di ricerca predefinita o esclusiva. “Il nostro caso riguarda tre tipi di restrizioni che Google ha imposto ai produttori di apparecchi Android e operatori di rete per assicurarsi che il loro traffico andasse verso il motore di ricerca di Google – ha spiegato Vestager – In questo modo, Google ha usato Android come veicolo per consolidare il dominio del suo motore di ricerca. Pratiche che hanno negato ai rivali la possibilità di innovare e competere sui meriti. E hanno negato ai consumatori europei i benefici di una concorrenza efficace nella importante sfera mobile. Questo è illegale per le regole dell’antitrust Ue”.

In particolare, Bruxelles contesta a Google tre cose. La prima: ha chiesto ai produttori di device Android di pre-installare l’app di Google Search e il browser Chrome come condizione per fornire la licenza dell’app store di Google, cioè Play Store. Secondo: ha pagato alcuni grandi produttori e operatori di rete a condizione che pre-installassero l’app di Google Search. Infine, Google ha offerto incentivi finanziari ai produttori e agli operatori di reti mobili a condizione che installassero esclusivamente Google Search sui loro apparecchi. Questo allo scopo di consolidare e mantenere la sua posizione dominante. La notizia della multa record è stata data per prima dall’agenzia Bloomberg. Per quanto riguarda la multa inflitta lo scorso anno per Google Shopping, l’azienda ha fatto ricorso alla Corte di Giustizia della Ue.

Secondo la società di ricerca Gartner, Android nel 2017 ha dominato il mercato della telefonia cellulare con una quota dell’85,9%: l’anno scorso sono stati venduti circa 1,3 miliardi di telefoni con Android contro i circa 215 milioni che girano con iOS e 1,5 milioni che utilizzano altri sistemi operativi. L’ammontare dell’ammenda è deciso all’ultimo momento e può teoricamente raggiungere, secondo le regole di concorrenza europee, fino al 5% del fatturato totale della società, che è calcolato per Alphabet, società madre di Google, in 110,9 miliardi di dollari nel 2017, ovvero 94,7 miliardi di euro. La multa si calcola anche in base alla durata dell’infrazione, all’intenzione o meno di commetterla e alle sue conseguenze, cioè se ha davvero ha fatto fuori i competitor dal mercato oppure no.

La mossa di Bruxelles, che era attesa, è destinata a farsi sentire nelle già tese relazioni Usa-Ue. Per parte sua l’azienda ha replicato con l’intenzione di ricorrere contro la sanzione: “Android ha creato più scelta per tutti, non meno: un ecosistema fiorente, innovazione rapida e prezzi più bassi sono le caratteristiche classiche di una forte concorrenza. Faremo appello contro la decisione della Commissione”. Non solo. Il numero uno di Google, Sundar Pichai, ha agitato lo spettro di un sistema operativo a pagamento, in futuro, per i produttori di smartphone. Intanto, però, Google deve cambiare la propria “condotta illegittima” entro 90 giorni, altrimenti rischia un’altra multa che potrebbe arrivare fino al 5% del giro d’affari mondiale medio giornaliero di Alphabet, la società madre del noto motore di ricerca. “Finora, il modello di business di Android è stato progettato in modo da non dover far pagare per la nostra tecnologia”, afferma Pichai, ricordando la dura concorrenza con iOS di Apple. “Siamo preoccupati – prosegue il ceo – invii un segnale preoccupante a favore di sistemi proprietari rispetto a piattaforme aperte”.

 

Economia europea più forte Ma l’Italia è vulnerabile

Dieci anni dopo lo scoppio della crisi più profonda dal dopoguerra, scatenatasi dopo il fallimento della Lehman Brothers nel 2008, è legittimo chiedersi se il sistema economico e finanziario sia oggi più solido di allora, e maggiormente in grado di far fronte ad una eventuale nuova recessione. In effetti, ci sono seri motivi per dubitarne, come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nel suo recente intervento all’Assemblea annuale dell’Abi. A livello europeo, l’architettura economica e monetaria è stata notevolmente rafforzata. È stato creato il Meccanismo europeo di Stabilità, che ha erogato fondi a cinque Paesi (Grecia, Portogallo, Irlanda, Cipro e Spagna), finanziando programmi di aggiustamento che sarebbero altrimenti stati molto più onerosi. Ha preso avvio l’Unione bancaria, con l’istituzione di un Meccanismo di Vigilanza Unico, collocato presso la Banca centrale europea, che regolamenta su basi comuni le principali istituzioni bancarie europee. Infine, la Bce ha adottato strumenti innovativi di politica monetaria, come l’Omt (Outright Monetary Transactions) che consente di effettuare interventi illimitati sui mercati finanziari, e il Quantitative easing, in vigore fino alla fine di questo anno.

L’architettura non è ancora completa, e va rafforzata in varie parti, come riconosciuto da tutti, anche se rimangono divergenze sui tempi e sulle modalità. Ma non c’è dubbio che il sistema sia oggi più robusto e più resiliente agli shock rispetto a dieci anni fa. Le condizioni economiche dell’area dell’euro nel suo insieme sono anch’esse notevolmente migliorate. Nella maggior parte dei Paesi il reddito nazionale ha superato i livelli raggiunti prima della crisi, anche se la disoccupazione rimane superiore, in media di circa un punto rispetto al 2008. Negli ultimi cinque anni l’area dell’euro è cresciuta in media a un ritmo lievemente superiore a quello degli Stati Uniti, al netto della diversa crescita della popolazione. Il principale punto di vulnerabilità riguarda le divergenze tra i vari Paesi. Queste divergenze sono maggiori rispetto al 2008, e in alcuni casi si sono accentuate, rendendo alcune parti dell’Unione più fragili.

Uno dei principali fattori di vulnerabilità riguarda proprio l’Italia. In questi dieci anni la crescita italiana è stata la più bassa dell’area, con l’eccezione della Grecia, e il reddito medio pro-capite italiano risulta ancora inferiore di circa l’8% rispetto al 2008.

La disoccupazione è scesa, ma rimane più alta di oltre 4 punti percentuali rispetto a dieci anni fa.

Il debito pubblico è passato da circa il 106% al 131% del prodotto lordo. Peraltro, negli ultimi cinque anni il debito italiano non ha dato segni di riduzione, mentre è calato, non solo per l’insieme dell’area ma anche nei Paesi che avevano adottato programmi di aggiustamento, come l’Irlanda (di 40 punti percentuali), Cipro (10), il Portogallo (5) e la Spagna (3).

Per quel che riguarda il sistema bancario italiano, esso è oggi, nel suo insieme, sicuramente meglio capitalizzato, ma la quota di Npl (Non Performing Loans) sul totale dell’attivo, pur in netto calo negli ultimi 2 anni, rimane superiore al livello del 2008, così come la quantità di titoli di Stato detenuti dalle banche.

In sintesi, gli indicatori macroeconomici e finanziari mostrano che, soprattutto rispetto al resto dell’Unione, l’Italia rimane particolarmente vulnerabile. Lo confermano gli indicatori di rischio, come lo spread sui titoli di Stato, che già prima delle elezioni del marzo scorso era il più elevato dell’area, con l’eccezione della Grecia.

La situazione non è irrimediabile. Si tratta di proseguire, e magari accentuare, l’azione avviata negli ultimi anni. Se viene confermato il ritmo di riduzione delle sofferenze bancarie, e delle altre esposizioni deteriorate, che è stato messo in atto negli ultimi mesi, è possibile raggiungere la media del sistema europeo nell’arco del prossimo biennio. Se viene mantenuto lo sforzo di risanamento delle finanze pubbliche, la dinamica del debito può avviarsi verso una riduzione significativa e duratura già dall’anno in corso. Questo processo di convergenza trarrebbe un grande beneficio, e potrebbe addirittura accelerarsi, se fosse accompagnato da un definitivo chiarimento sull’appartenenza incondizionata dell’Italia all’unione monetaria, che ridurrebbe il profilo di rischio del Paese. Questo circuito virtuoso contribuirebbe peraltro ad accrescere il clima di fiducia necessario per concordare con gli altri partner europei le misure di rafforzamento dell’architettura dell’euro.

Se non si innesta un circuito virtuoso, le vulnerabilità del Paese rischiano di accentuarsi. Il mantenimento di uno spread sui livelli attuali, intorno a 250 punti base, produce effetti negativi non solo sulle finanze pubbliche, come siamo abituati a pensare, bensì anche sull’economia reale. L’aumento dei tassi tende infatti a ridurre le riserve disponibili del settore bancario per erogare nuovo credito alle famiglie e alle imprese; crea un incentivo per le banche ad accrescere le loro posizioni in titoli, a scapito del credito al sistema produttivo; aumenta il costo di indebitamento per le imprese e crea un clima di incertezza che tende a rallentare gli investimenti. Rischia così di innescarsi un circuito perverso, tra economia reale e mercati finanziari e bilancio pubblico. Un circuito perverso che solo una forte azione di politica economica può arrestare.

Lorenzo Bini Smaghi

Corriere della Sera, 17 luglio 2018

https://www.corriere.it/opinioni/18_luglio_17/economia-europea-piu-forte-ma-l-italia-vulnerabile-0d66538c-8925-11e8-b6ba-4bfe4aefe0a3.shtml

L’allarme di Ft: «Oggi Amazon pratica prezzi bassi, che cosa farà in futuro?»

Spendendo un miliardo di dollari Amazon ne ha cancellati 14. Non soldi suoi, ma del settore in cui ha fatto il suo ingresso, quello della distribuzione dei farmaci. Con questo commento il Financial Times fa il punto sull’ultima acquisizione del dinamico e controverso gruppo delle consegne globali — Amazon — la creatura fondata 24 anni fa a Seattle dal visionario Jeff Bezos e valutata oggi in Borsa l’incredibile somma di 824 miliardi di dollari, grosso modo quanto il Pil annuale di un paese come l’Olanda.

La somma «sparita» di 14 miliardi di dollari equivale alle perdite in borsa subite dalle principali catene statunitensi di distribuzione di farmaci — Walgreens, Boots Alliance, Cvs Health, Express Scripts, Cardinal Health, McKesson e Amerisource -Bergen — dopo che il colosso di Seattle ha annunciato l’acquisizione di PillPack, una società di vendita online di specialità farmaceutiche. Già nel corso degli ultimi 12 mesi, ricorda il Financial Times, queste società avevano perso circa il 10% della loro capitalizzazione in seguito ai «rumours» di un possibile ingresso di Amazon nel settore.

Il mercato, secondo il giornale finanziario britannico non sta reagendo in modo esagerato. Infatti tutte le volte che Amazon ha provato a colonizzare nuovi segmenti della distribuzione l’impatto è stato fortissimo, come ad esempio nel caso di Wal Mart che ha visto ridurre drasticamente i suoi margini a causa della concorrenza del gigante di Seattle. E tuttavia i consumatori beneficiano delle riduzioni di prezzi che derivano dall’aumento della concorrenza il che va a merito di Amazon. Una società che nel 2017, grazie alle sue dimensioni colossali, è stata in grado di investire 34 miliardi di dollari in nuove piattaforme tecnologiche d’avanguardia, contenuti e servizio alla clientela. Nessuno è in grado di competere con una simile potenza di fuoco.

Ma che cosa accadrà una volta che Amazon avrà raso al suolo i principali competitor all’interno dei settori in cui opera, si chiede il quotidiano della City. Il rischio è che i consumatori, che oggi godono di tutti i vantaggi di prezzi più bassi nell’acquisto dei prodotti siano costretti in futuro a pagare di più. E senza neanche accorgersene o avere la possibilità di rivolgersi altrove.

Marco Sabella

Corriere della sera , 1 luglio 2018

https://www.corriere.it/economia/18_luglio_01/allarme-ft-oggi-amazon-pratica-prezzi-bassi-che-cosa-fara-futuro-7af76df2-7d1b-11e8-b995-fbeecea523fe.shtml

 

Sullo stesso tema:

https://www.corriere.it/economia/18_gennaio_19/amazon-rischio-monopolio-l-ipotesi-dividerla-due-6a91276a-fd18-11e7-b1af-dcddd5d25ebd.shtml

https://www.internazionale.it/notizie/robinson-meyer/2017/06/29/monopolio-amazon

Monopolista-monopsonista, Amazon caso unico al mondo. E l’Europa sta a guardare

 

Perché le promesse elettorali ci piacciono così tanto

Cosa accadrebbe se applicassimo gli studi che poche settimane fa hanno valso il premio Nobel per l’Economia a Richard Thaler alla campagna elettorale italiana? Il tema non è peregrino: Thaler, così come prima di lui altri esperti di economia comportamentale insigniti del prestigioso riconoscimento – George Akerlof, Robert Fogel, Daniel Kahneman, Elinor Ostrom, Herbert Simon, e Robert Schiller – ha concentrato la sua attenzione sui processi decisionali in materia economica e di risparmio personale, andando ad analizzare i motivi per cui facciamo scelte sbagliate quando si tratta di decidere cosa fare del nostro denaro e di quello pubblico: razionalmente comprendiamo bene che è opportuno prendere e gestire dei rischi per ottenere alti rendimenti nel medio e lungo termine ma poi siamo portati a fuggire il rischio e a preferire di rinunciare a quei benefici (se non addirittura a perderci in termini reali, come spiegato in questo articolo) preferendo strumenti garantiti, protetti, con rendimenti bassi o nulli, se non addirittura lasciarli sul conto corrente o sotto il materasso.

Cosa c’entra tutto ciò con l’abolizione della legge Monti-Fornero sulle pensioni, o sulle tasse universitarie o ancora con il canone Rai? È davvero possibile mettere a confronto una decisione in materia di risparmio o di finanza con il voto a un partito o l’adesione a un soggetto politico?

Richard Thaler e i suoi predecessori risponderebbero che il nesso c’è eccome e si gioca sulle asimmetrie si cui lavora la nostra mente e che, detto in parole semplici, sono lo specchio dei suoi limiti quando si attiva per prendere decisioni. È utile conoscere quali sono i fattori che ci condizionano:
1) siamo portati a prendere in esame e a isolare solo una parte di tutto ciò che sarebbe necessario sapere e non è detto che ciò che abbiamo isolato sia la parte più corretta (effetto di isolamento);
2) è fondamentale il modo con cui ci viene presentata la questione (effetto framing);
3) guadagnare denaro ci da una soddisfazione di gran lunga inferiore al dolore provato a perdere la stessa identica cifra (avversione alle perdite) il che porta a evitare scelte azzardate e innovative. Inizia a essere più chiara l’analogia con la politica?

Aggiungiamo un elemento più specifico ossia il cosiddetto “reflection effect”: Kahneman e Tversky hanno scoperto che quando non è chiaro il premio che si ottiene come conseguenza di una scelta, siamo portati a stravolgere l’ordine delle preferenze e la visibilità del rapporto tra costi e benefici: le lotterie non a caso vedono la partecipazione di numerose persone desiderose di incassare il cospicuo monte premi, anche se le chances di vittoria sono bassissime(senza considerare la perdita ossia costo del tagliando che invece è certo). Per tutto ciò siamo indotti verso una direzione piuttosto che verso un’altra.

Non si tratta qui di stabilire se a posteriori una scelta è migliore di un’altra (anche se quando ci sono in gioco i soldi questi si possono contare) né evidentemente la qualità dell’offerta politica dei diversi partiti, ma di mettere sotto la lente quel che ci condiziona. Detto in altro modo, cosa ci rende potenzialmente “vulnerabili” al potere di convincimento altrui? E per farlo ci può essere utile definire alcune asimmetrie tra le scelte che ci troviamo di fronte che ci indirizzano in modo preciso: promesse immediate contro benefici nel lungo termine, in primo luogo, ma anche concretezza del vantaggio contro impalpabilità del guadagno di lungo termine, ridotta dimensione del costo della promessa contro il gigantismo astratto dell’impatto futuro.

Prendiamo un caso di scuola, ossia l’indebitamento delle famiglie statunitensi a causa della carte di credito e di debito prima della crisi del 2008: tanti piccoli esborsi con uno strumento percepito poco “concreto” rispetto invece alle monete o alle banconote, non ha fatto scattare nessun meccanismo di allarme nei consumatori. «Peanuts», noccioline cioè, sono i piccoli ammontari di denaro che spendiamo senza pensarci, ma che tutti insieme possono produrre grandi problemi. Quando arriva il rendiconto dettagliato di quelle spese, gravate peraltro di pesanti interessi. La politica non fa lo stesso? Quando la Finanziaria del 1974 introdusse la possibilità per i dipendenti pubblici di andare in pensione con 14 sei mesi e un giorno di lavoro, furono in pochi a sottolineare i rischi che nel tempo scelte di questi tipo producono sui conti dello Stato. Ma questa e numerose altre misure analoghe sono state le maggiori responsabili dell’esplosione del debito pubblico italiano: elemento di vulnerabilità del sistema Italia e vera spina nel fianco della sovranità del Belpaese di oggi.

Quarantaquattro anni dopo il mondo è cambiato moltissimo, ma la nostra capacità di decidere si è evoluta pochissimo. Sparite le ideologie e la politica industriale, ridotti ai minimi termini i programmi, il marketing politico – come quello finanziario – utilizza il target elettorale in modo analogo a come l’industria finanziaria considera la platea di risparmiatori e investitori. Che sia la legge Fornero o gli sgravi fiscali per i possessori di animali, il canone Rai o le dentiere gratis, gli spin doctor dei politici studiano i modi con cui suscitare interesse e attenzione e accreditare i candidati come soggetti attenti ai bisogni degli elettori. Sta al consumatore del prodotto elettorale, così come di quello finanziario, saper discernere e decidere, con la sua capacità di informarsi e definire un’opinione il più possibile fondata e non “di pancia”.

Post scriptum Nudge 
Possibile che non siano possibili contromisure a questi comportamenti inefficienti? E che non si possa effettuare un salto evolutivo? Comprendere e spiegare “razionalmente” la relazione temporale tra benefici e costi non è impossibile, ma nemmeno semplicissimo. Si fa presto a dire che è necessario educare le persone a riconoscere “gli specchietti per le allodole”: ci sarà sempre una fetta importante di popolazione che sarà vittima di questi specchietti anche perché la loro vulnerabilità corrisponde al presunto proprio beneficio, economico o politico. Aiuterebbe un patto tra tutti coloro che non vogliono ricorrere a mezzi considerati deteriori per ottenere consenso o guadagnare soldi a spese degli altri; ciò presuppone però un tasso etico non comune e non uniforme all’interno della popolazione. A meno che questa comprensione non si annidi in profondità nella cultura “emotiva” di un popolo: la super inflazione dei tempi della Repubblica di Weimar continua a condizionare le scelte di politica economica della Germania.

E il Nudge? La “spintarella gentile” grazie alla quale Richard Thaler è diventato famoso per un celebre libro scritto con Cass Sunstein, è vista da molti come una soluzione. Ma è efficace? «Il Nudge la fa un’authority di vigilanza – spiega lo psicologo Paolo Legrenzi –, che deve intervenire in caso di inadempienze. E in materia di risparmio e finanza qualche falla l’abbiamo vista. Per quanto riguarda la politica il Nudge è spuntato a causa della competizione elettorale tra candidati, che spinge per far saltare quel possibile “patto tra gentiluomini” per evitare comportamenti deteriori. Quando in gioco ci sono in gioco le decisioni e i rischi connessi, la cosa difficile, se non disperata – spiega Legrenzi –, è far comprendere un concetto a chi non lo sa comprendere: è il paradosso della conoscenza. Eppure non è così difficile. Basti pensare al passaggio generazionale dei patrimoni delle famiglie italiane: tutti pensano a pagare meno tasse e a proteggere ciò che si ha, dimenticando che investire per i figli e per i nipoti allunga l’orizzonte temporale degli investimenti, ottenendo rendimenti superiori».

Marco lo Conte

Il Sole 24 ore, 14 gennaio 2018

http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-01-09/perche-promesse-elettorali-ci-piacciono-cosi-tanto-170905.shtml?uuid=AEuqBVeD&cmpid=nl_7+oggi_sole24ore_com

Conti pubblici, il rigore non frena lo sviluppo

Il Fiscal compact sembra essere diventato il nemico principale di quasi tutte le forze politiche. Ma è un errore. Quelle regole europee che vengono presentate come una rigida camicia imposta ai nostri conti pubblici, regole che sembrano esigere solo sacrifici, sono invece quelle che oggi possono permetterci di guardare al futuro con sufficiente tranquillità. Troppo spesso si confonde il rigore sui conti pubblici come un freno allo sviluppo. Non è vero. È grazie alla prudenza fiscale seguita quando l’economia va bene che, nel momento in cui arriva una recessione, si possono usare tasse e spesa per attenuarne gli effetti sulle famiglie. Tanto più che l’Italia già oggi rispetta le regole del Fiscal compact. Contrariamente al marzo 2012, quando lo approvammo solennemente nel mezzo di una grave recessione, oggi applicarne le regole è nel nostro interesse. Ma che cos’è il Fiscal compact ? È un trattato europeo negoziato inizialmente dal governo Berlusconi e poi firmato dal governo Monti nel 2012, che è fatto di tre regole: 1) il deficit pubblico deve non essere superiore a mezzo punto di Prodotto interno lordo (con una clausola che consente deficit più alti durante una recessione); 2) l’impegno per i Paesi con un debito pubblico superiore al 60% del Pil, di ridurne ogni anno l’eccedenza di un ventesimo, che per l’Italia significa ridurre il debito ogni anno di tre punti e mezzo del Pil. E infine il punto 3): l’impegno a mantenere il deficit al di sotto del 3 per cento del Pil sempre, cioè senza tener conto di un eventuale ciclo economico negativo. 
La legge di Stabilità appena approvata dal Parlamento prevede un deficit corretto per il ciclo economico pari all’1 per cento del Pil quest’anno (superiore quindi di mezzo punto rispetto alla prima regola) e 0,2 nel 2020, quindi al disotto della soglia del Fiscal compact. La stessa legge prevede anche un deficit (non corretto per il ciclo economico) che scende dall’1,6 per cento di quest’anno allo 0,2 nel 2020, entrambi ben al di sotto della soglia del 3 per cento. Infine un rapporto debito-Pil che scende poco meno del 2 per cento quest’anno e poco più del 3 per cento nel 2020.
Questi conti sono basati su una stima realistica della crescita, intorno all’1,5 per cento l’anno, e sull’ipotesi che i tassi di interesse riprendano a crescere (e lo faranno). Ma la vita media dei nostri titoli pubblici è stata allungata a circa 7 anni e questo attenuerà l’effetto di un aumento dei tassi sul costo del debito. Insomma, i criteri indicati dal Fiscal compact sostanzialmente già li rispettiamo.
Nel 2012, quando il trattato fu approvato dal Parlamento (con soli 24 voti contrari al Senato su 216, e solo 65 contrari alla Camera, su 368) rispettarlo era impossibile: il Pil cadeva di oltre il 2 per cento l’anno e il costo del debito assorbiva oltre 5 punti di Pil, contro i 3,5 di oggi. Per poter rispettare le regole del Fiscal compact era necessario che l’economia ripartisse ed ora è ripartita.
Alcune riforme hanno funzionato (come quella del mercato del lavoro). Anche i tagli alle tasse sul reddito dei lavoratori dipendenti, come gli «80 euro» del 2014, hanno aiutato. I ricercatori della Banca d’Italia (Neri, Rondinelli e Scoccianti, «The marginal propensity to consume out of a tax rebate: the case of Italy», 2015) hanno stimato che circa metà del bonus erogato nel 2014 è stata spesa nel corso dello stesso anno producendo un incremento nei consumi di circa 3,5 miliardi di euro, pari a circa il 40 per cento dell’aumento della spesa complessiva delle famiglie nel 2014.
Rispettare il Fiscal compact significa però non cancellare alcune riforme fatte anche sull’onda dell’emergenza. Ad esempio l’abolizione della legge Fornero comporterebbe da sola uno sforamento del deficit di un punto e mezzo di Pil l’anno.
Rimanere all’interno del Fiscal compact ci consente di accumulare «munizioni» fiscali da spendere se e quando ci sarà un’altra recessione. Nel 2008 l’Italia entrò in una profonda crisi con un debito talmente alto che non fu possibile reagire con interventi fiscali espansivi come invece fecero altri Paesi in cui il debito non preoccupava i mercati. Gli investitori si chiesero se saremmo stati in grado di sostenere il debito, e i tassi di interessi schizzarono in alto imponendo misure restrittive immediate, prima ancora di uscire dalla recessione. E questo spiega perché, nel mezzo di una crisi, il governo di emergenza di Monti varò soprattutto aumenti di imposte. Se avessimo avuto un debito del 60 per cento del Pil come prescrive il Fiscal compact avremmo avuto molto più spazio e tempo per una politica di bilancio che avrebbe permesso di non infierire su cittadini e imprese con tasse o mancate agevolazioni.
La grande recessione dalla quale siamo appena usciti non sarà purtroppo l’ultima. Pensare oggi di abbandonare una politica fiscale prudente, soprattutto dal lato delle spese, che oggi ci permette di guardare al futuro con meno preoccupazioni, sarebbe miope e vorrebbe dire buttare al vento gli sforzi fatti da famiglie e imprese per uscire dalla crisi. Insomma danneggerebbe i cittadini ai quali si chiede il voto.

ALBERTO ALESINA E FRANCESCO GIAVAZZI

Corriere della Sera, 19 gennaio 2018

 

http://www.corriere.it/editoriali/18_gennaio_19/conti-pubblici-rigore-non-frena-sviluppo-fiscal-compact-39f0a7a0-fc93-11e7-80a4-a8d109924739.shtml

Le favole da evitare sul debito pubblico

In campagna elettorale si stanno avanzando proposte di riduzione del debito pubblico ( rapporto tra debito pubblico e PIL) e di abolizione della riforma pensionistica, la cosiddetta legge Fornero.

Ecco l’estratto di un articolo pubblicato sul Corriere della Sera dell’11 gennaio 2018

 

Trenta-quaranta punti di taglio sul Pil in 10 anni non sono impossibili ma richiedono almeno un paio di cose: dei surplus di bilancio notevoli (altro che aumenti di spese e abolizione della legge Fornero!), e dei tassi di interesse reali che rimangano assai bassi, e questo non dipende da noi.
La storia e la teoria economica ci spiegano che per ridurre il debito ci sono tre modi

Il primo è svalutare il valore reale del debito con una «botta di inflazione». L’iperinflazione tedesca degli anni 20 cancellò l’enorme debito pubblico che la Germania aveva accumulato durante la Prima guerra mondiale, contribuendo a provocare eventi sociali e politici drammatici. Anche dopo la Seconda guerra mondiale l’inflazione svalutò, seppure in modo meno drammatico, il valore reale del debito, sia negli Stati Uniti che in Italia. Oggi però l’idea che il debito pubblico possa essere svalutato dall’inflazione è un’assurdità: non appena i risparmiatori lo sospettassero, i tassi di interesse salirebbero molto più dell’inflazione rendendo il debito ancora più costoso.

Il secondo modo è un ripudio. Se il nostro debito fosse detenuto solo da italiani, un ripudio comporterebbe una ridistribuzione di ricchezza da chi possiede titoli pubblici ai contribuenti. Ma questo non è il nostro caso. Il 40 per cento circa del debito italiano è detenuto da investitori internazionali. Un ripudio creerebbe una crisi di fiducia verso i nostri mercati, il blocco degli investimenti esteri, fallimenti bancari e una nuova crisi finanziaria. Un ripudio dopo l’altro, l’Argentina è passata da essere uno dei Paesi più ricchi del mondo a un caso quasi disperato.

La terza alternativa è una crescita del denominatore del rapporto debito/Pil più rapida della crescita del numeratore, cioè il deficit dei conti pubblici. In certi periodi storici – ad esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale – la crescita del Pil è stata cosi alta che il rapporto debito/Pil si è ridotto relativamente in fretta. Purtroppo tassi di crescita elevati come durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta non sono all’orizzonte. La conclusione è che ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito.
Un avanzo nel bilancio pubblico si può ottenere o riducendo le spese o aumentando le imposte. L’evidenza empirica dimostra che un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese riduce la crescita, così tanto che alla fine il rapporto debito/Pil anziché diminuire sale ancor di più. Invece, tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil perché non rallentano la crescita, o al massimo la influenzano di poco e per poco tempo. Questo è vero soprattutto per quelle riforme che bloccano l’aumento automatico di certe spese come le pensioni, soprattutto quando diventano incompatibili con l’allungamento della vita e il calo della natalità. È per questo motivo che cancellare la legge Fornero renderebbe ancor più difficile ridurre il debito.
Questo è ciò che si impara leggendo i libri di storia e qualche manuale di economia. Purtroppo questa campagna elettorale è piena di favole. In parte è inevitabile, ma a noi pare che si stiano superando limiti assai pericolosi.

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

http://www.corriere.it/economia/18_gennaio_11/favole-evitare-debito-pubblico-campagna-elettorale-f418b50a-f63f-11e7-9b06-fe054c3be5b2.shtml

Ma l’Italia quanto cresce davvero?

Il numero degli occupati ai massimi da quarant’anni. Il ritmo di crescita più rapido del decennio. Il principale indice di Borsa di Milano lievitato quasi del 19% in dodici mesi e rendimenti dei titoli di Stato fra i più bassi del dopoguerra, mentre il fatturato dell’export nel 2017 aumenta più che in Francia o in Germania. Accanto a tutto questo, dai partiti proposte pensate per un elettorato psicologicamente ancora in recessione: vi leviamo le tasse sulle crocchette per gatti o la tivù di Stato; vi ridiamo la pensione nel pieno delle forze con un assegno intatto; vi garantiamo un sussidio universale o un salario minimo del 15% sopra ai livelli tedeschi.
Ma l’Italia come sta veramente? Quando si guardano i mercati finanziari, o l’economia, il lavoro e gli investimenti, o l’industria del credito, oppure la finanza pubblica, la risposta è sempre la stessa: ambivalente. Se l’obiettivo era la ripresa, è stato ampiamente centrato; se era una convergenza con il resto d’Europa, allora in gran parte sfugge e si allontana anche mentre splende il sole.

Era dal 2009 che l’Italia non vedeva tassi di crescita del reddito nazionale attorno all’1,5%, al punto che ormai un ritmo simile sembra un record; eppure nel 2017 sarà ancora una volta il più basso della zona euro, mentre il ritardo sul resto dell’area molto probabilmente è destinato a restare lo stesso: quasi un punto in meno, come nel 2016. Quanto al lavoro, un milione di posti sono stati aggiunti da quando la ripresa è arrivata in Italia all’inizio del 2014; nel frattempo però il tasso di occupazione – la quota di coloro che lavorano in proporzione a coloro che potrebbero farlo – resta nettamente la più bassa dell’Unione europea dopo la Grecia, staccata anche dalla Spagna. Lo stesso vale poi per i tassi di attività, che includono chi non lavora ma almeno studia: migliorati quasi del 2% in due anni, ma i più bassi in Europa (Grecia inclusa).
Si presta a una doppia lettura anche il volto migliore dell’economia nazionale, l’export. Nel 2017 le vendite all’estero sono salite di circa l’8%, più del commercio mondiale e più che in Francia (5%) e Germania (8%). Una seconda occhiata rivela però che dal 2010 al 2016 la crescita cumulata di fatturato del «made in Italy» (+24%) era rimasta indietro non sono sulla Francia (+ 25%) e la Germania (33%), ma era stata staccata da Spagna (34%) e Portogallo (38%). L’Italia cerca dunque di recuperare terreno, non accumulare vantaggio: impresa resa più complessa dal fatto che il numero di imprese esportatrici resta quasi fermo, non si espande. Sempre la stessa élite di produttori diventa più efficiente, allargando il divario con tutti gli altri. Una delle ragioni è forse in una quota di laureati nel Paese salita dal 12% (2007) a quasi il 16%, pur restando nettamente la più bassa dell’area euro; l’Île-de-France. la regione di Parigi, ha una densità quasi doppia di giovani laureati rispetto alla Lombardia.
Una seconda ragione più transitoria della mancata crescita di scala di tante imprese è negli investimenti che in Italia finalmente salgono, ma restano scarsi: siamo al 17,2% del prodotto lordo nel 2017, mezzo punto sopra ai minimi del 2014 ma ancora ai livelli degli anni orribili 2011-2012; terz’ultimi dopo Grecia e Portogallo. Probabilmente dipende anche dal guado che il sistema bancario non ha ancora varcato del tutto: i crediti in default nei bilanci sono scesi un bel po’ ma, al 14% del portafoglio prestiti, restano (in proporzione) fra i più alti del mondo, mentre la capacità del sistema bancario di coprire queste perdite generando reddito è fra le più basse.

I miglioramenti dell’Italia – innegabili – giustificano la corsa degli indici di Borsa, ma non va letta come un assegno in bianco sul futuro: i prezzi delle azioni in rapporto agli utili restano due punti e mezzo sotto le medie europee. Né sorprende che l’incertezza politica renda lo spread dei titoli di Stato di Roma più alto anche rispetto a Lisbona. Del resto anche il debito pubblico si sta stabilizzando ma, secondo Bruxelles, l’Italia resta fra i rari casi in cui anche nel 2017 sale un po’. Non è insomma il caso di battersi il petto, né di gonfiarlo. Di sicuro il risveglio italiano deve alla ripresa europea più di quanto tanti politici ammettano. Preferiscono le promesse elettorali. Eppure il problema di queste ultime non è che saranno attuate, perché sono troppo strabilianti. È piuttosto che la politica così perde la legittimità di proporre misure più realistiche e meno seducenti dopo, quando magari non basterà più l’Europa a sospingerci.

Federico Fubini

Corriere della Sera, 11 gennaio 2018

http://www.corriere.it/economia/18_gennaio_10/ma-l-italia-quanto-cresce-davvero-fdb93d0a-f649-11e7-9b06-fe054c3be5b2.shtml

L’economia va meglio? Ecco i numeri del 2017

L’economia dei numeri e quella percepita

Ma alla fine, l’economia italiana nel 2017 è migliorata o no? E i numeri vanno d’accordo con la percezione che ne hanno gli italiani? La contraddizione è riesplosa dopo che l’Istat ha diffuso i numeri più recenti su conti pubblici ed economia: bene il rapporto deficit/pil, inflazione che si risveglia, risparmi che ritornano. Eppure il clima con il quale il Paese sta imboccando l’ultimo miglio della campagna elettorale è ben diverso: crisi, 4 milioni di italiani sulla soglia della povertà, giovani che non hanno un lavoro stabile, pensioni incerte. Insomma, la realtà percepita appare ben diversa. Cerchiamo di mettere a fuoco i numeri che possono tirare un bilancio del 2017.

I conti pubblici migliorano (per la Ue non abbastanza)

L’Istat ha reso noto che il rapporto deficit pil è stato pari al 2,1% nel terzo trimestre dell’anno appena chiuso contro il 2,4% dello stesso periodo del 2016. Si tratterebbe di un sensibile miglioramento dei conti pubblici; se calcolato su base annua il rapporto diventa del 2,3% che secondo l’istituto di statistica è la migliore performance dal 2007 . I dati sul debito pubblico italiano (vale a dire la somma di quanto si è andato accumulando negli anni) sono meno netti. Nel 2017 lo Stato ha dovuto ancora emettere per finanziare il suo funzionamento titoli per poco più di 400 miliardi di euro; secondo il Tesoro questa cifra calerà nel 2018 di circa 20 miliardi. Ma il debito pubblico italiano complessivo italiano fatica a scendere, anzi, nel 2017 ha avuto qualche preoccupante «fiammata» tanto da provocare la chiamata del vicepresidente della UE Katainen: era pari a 2018 miliardi a gennaio, era salito a 2.301 a luglio per poi calare a 2289 a ottobre. E attenzione perché nel 2018 la Bce smetterà progressivamente di acquistare titoli pubblici italiani. La pressione fiscale, infine, è calata a 40,3%, in discesa di pochi decimali.

Su Pil e industria, boom dell’export

Poco prima di Natale il presidente della Bce Mario Draghi ha reso note le cifre sul Pil italiano, che risulta in sensibile crescita: +2,4%; la previsione è che il grafico continuerà a salire anche durante l’anno nuovo raggiungendo il +2,3% . Una forte spinta è venuta dal settore industriale che secondo l’Istat a ottobre stava crescendo a un ritmo del 2,9% annuo. Nicola Nobile economista di Oxford, prevede che a fine anno il dato sarà del 3%, in linea con la velocità di crescita della Francia e superiore a quello della Germania. Non tutta l’economia però è cresciuta; a trarre vantaggio dalla congiuntura sono le imprese votate ai mercati esteri: basti dire che l’export italiano, secondo il rapporto Ice-Prometeia è cresciuto del 7,3% rispetto al 2016 (+25% le vendite sul mercato cinese). Detto questo la ripresa italiana resta complessivamente tra le più deboli dell’area euro e il pil resta ancora di 6-7 rispetto all’inizio della crisi.

Disocupazione ferma (e record di precari)

L’indicatore più controverso resta il mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione in Italia a ottobre era calcolato dall’Istat stabile all’11,2%, comunque l’indice più basso dal 2012. Se si fa il confronto con il 2016, il numero dei posti di lavoro è aumentato di 303.000 unità ma la spinta principale arriva dai contratti a tempo determinato che nel 2017 in Italia hanno raggiunto il record assoluto: 2 milioni e 784 mila unità. Anche in questo caso il panorama del mercato del lavoro è a «macchia di leopardo»: secondo Unioncamere le imprese denunciano difficoltà a reperire figure professionali di alto profilo (fino a uno su cinque) mentre nel segmento di età 15-24 anni la percentuale di disoccupati balza al 35,1%. Il tasso di occupazione complessivo (58,1% della popolazione) resta tra i più bassi della Ue.

Comsumi: «miglioramento, ma fragile»

Tutto questo come si traduce sulla spesa delle famiglie italiane? L’indicatore dei consumi di Confcommercio registrava ad agosto 2017 una crescita dello 0,8% su base annua . Un dato definito «in miglioramento ma fragile». Un’altra fonte, il rapporto Coop-Nomisma prevede per il 2018 un aumento del potere di acquisto delle famiglie dell’1%. Previsione corroborate ieri dall’ottimistico dato comunicato dall’Istat, in base al quale il reddito disponibile per le famiglie è mediamente cresciuto nel 2017 del 2,1%.

Si risveglia l’inflazione (ma non la busta paga)

Negli anni ‘70 e buona parte degli ‘80 lo spauracchio dell’economia italiana era l’inflazione che galoppava in doppia cifra; negli ultimi anni il timore degli economisti era stato di segno opposto, vale a dire che i prezzi si erano completamente raffreddati, «termometro» di una complessiva sfiducia sulle prospettive di crescita. Ora l’istituto di statistica segnala un risveglio dell’inflazione che in Italia toccherà il +1,2%, un dato che mancava da anni. Peccato che l’incidenza sulla busta paga sia ancora impalpabile: Eurostat comunica che nel 2017 lil costo del lavoro in Italia sia lievitato solo dello 0,5%, contro il 2,2 della Germania e l’1,7 della Francia. In fatto di miglioramento delle retribuzioni l’Italia resta il quart’ultimo paese d’Europa (davanti solo a Finlandia, Portogallo e Spagna

Claudio Del Frate

Corriere della Sera, 5 gennaio 2017

http://www.corriere.it/economia/cards/economia-va-meglio-ecco-numeri-2017/economia-numeri-quella-percepita_principale.shtml

Quella spinta del fattore «T» (tasse e tassi d’interesse)

Quando i mercati partono con questa velocità viene da chiedersi se si tratta di una fiammata o di un aumento duraturo. La risposta è più complicata di quanto appaia, però si può tentare di analizzare i segnali. Primo: nel corso del 2017 la Fed ha fatto capire che i tassi di interesse aumenteranno gradualmente. Secondo, Donald Trump ha varato la riforma fiscale che prevede un forte abbassamento delle imposte (cosa che piace sempre ai mercati finanziari). Terzo: la Banca centrale europea ha avviato il dimezzamento della politica di acquisto di titoli del debito pubblico (quantitative easing) ma non ha intenzione di rendere più costoso il denaro. Segnali che per le società quotate rappresentano uno scenario di tranquillità. Si fanno poi sempre più robusti i dati sulla ripresa dell’economia e l’andamento delle aziende, soprattutto negli Stati Uniti, stanno evidenziando forti progressi negli utili. Risultato: l’attesa di un aumento dei dividendi piace sempre agli investitori.

Ma veniamo all’Italia: i segnali intermittenti che arrivano dallo spread, che oscilla intorno a 160 punti, sono legati da un lato alle scelte della Banca centrale europea, dall’altro al voto del 4 marzo. Quanto più lo scenario si farà incerto tanto più la Borsa si metterà a fibrillare. Con un elemento che è cambiato, questo sì, profondamente. La crisi delle 11 banche (da Veneto Banca a Etruria), in qualche modo, alla fine, è stata governata e dunque il sistema del credito potrà dare più attenzione alle esigenze di sviluppo delle imprese. In un momento nel quale, tanto per osservare un dato, le esportazioni crescono al ritmo del 7%. E il Prodotto interno lordo, timidamente, ha imboccato la via della crescita superiore all’1,5%.

Come dire: la crisi morde ma le aziende più solide (alcune quotate) hanno risposto molto bene. E non è un caso se nel corso del 2017 le matricole che si sono affacciate sul listino di Piazza Affari sono state ben 39 e nel corso del 2018 ne sono attese almeno una cinquantina. Segno che la Borsa rappresenta un meccanismo di finanziamento dello sviluppo che viene di nuovo preso in considerazione (anche se deve competere con la nuova febbre dei tulipani-bitcoin).

A questo punto il tema sono gli investitori internazionali: ormai il 51% del capitale delle società per azioni quotate è detenuto da fondi pensione, gestioni patrimoniali, banche che hanno modificato (in positivo) la loro percezione sull’Italia. Il nodo sarà conservare questo clima nei prossimi mesi perché, come recita un adagio di Borsa, gli investitori hanno una memoria d’elefante e le gambe da lepre. Le inversioni possono essere molto rapide nella scelta di diversificazione del portafoglio. Non a caso quando scattano le vendite, Milano è sempre il listino più penalizzato, per certi versi il più fragile quando si scatenano le speculazioni al ribasso.

Una vecchia regola di Borsa era questa: se il dollaro sale le Borse salgono, se il dollaro scende le Borse vanno giù. In questi giorni. con l’euro ai massimi da tre anni (circa 1,21). la regola è stata contraddetta. Si tratta di vedere quanto durerà o se i manuali degli operatori andranno cambiati

Nicola Saldutti

Corriere della Sera , 5 gennaio 2018

http://www.corriere.it/economia/18_gennaio_05/quella-spinta-fattore-t-tasse-tassi-d-interesse-10669c48-f1e7-11e7-97ff-2fed46070853.shtml