l mistero dei salari perduti

  C’è una cosa che accomuna Janet Yellen, Mario Draghi e gli altri colleghi delle banche centrali e non è quella che pensate: non è né l’ombra di una bolla finanziaria, né il trend delle valute. È la stessa preoccupazione che fa il giro degli uffici studi di grandi istituzioni come il Fmi, l’Ocse e la Bce e non è la prospettiva del commercio internazionale. Ci pensano sempre più spesso gli economisti di grido, a Harvard o al Mit, ma non è l’ombra della stagnazione secolare. La sorpresa è che quella preoccupazione è anche il cruccio quotidiano di Jeremy Corbyn e Susanna Camusso.

Il misterio del salario scomparso è il thriller dell’estate ed è ancora in attesa di una soluzione. Mai, nell’economia moderna, era successo che una recessione finisse e il risultato non si vedesse nell’aumento dei salari. Interi modelli econometrici sono costruiti sul presupposto che, quando l’economia riparte, le imprese assumono, i lavoratori diventano scarsi e, in base alla legge della domanda e dell’offerta, i salari salgono. Ma, questa volta, no: l’economia appare in buona salute di qua e di là dell’Atlantico, la disoccupazione continua a scendere, ma i salari stanno appena a livello dell’inflazione. E non va bene affatto.

Senza la spinta dei salari, l’inflazione non riesce a risalire sopra il 2 per cento e la deflazione resta in agguato. Peggio: il 70 per cento dell’economia moderna è fatto di consumi e se la gente non ha i soldi per comprare, il sistema resta, come Wile Coyote, sospeso nel vuoto. O, come ripete più solennemente Draghi, la ripresa non è in grado di sostenersi da sola. Da un anno, dunque, il dibattito economico mondiale è centrato, neanche fosse un congresso della IV Internazionale, su questo scollamento fra ripresa e salari. L’ultimo Outlook del Fmi dedica un intero capitolo alla questione, per sottolineare che ai capitalisti va sempre più grassa: la quota del lavoro sulla ricchezza nazionale è scesa dal 54 al 50 per cento negli ultimi decenni, un mutamento epocale nel rapporto di forza. I sindacati, lamentano quelli che, una volta, venivano definiti “i cani da guardia del neoliberismo” non sono stati in grado di contrastare due tendenze di fondo. Quelle che vengono subito alla mente: tecnologia e globalizzazione. Insieme sono responsabili dei tre quarti del declino del lavoro sul Pil in paesi come l’Italia e la Germania. La prima pesa, probabilmente, più della seconda: quest’anno le aziende della robotica tedesca aumenteranno il fatturato del 7 per cento e un economista, David Autor, calcola che ogni robot che entra in fabbrica cancella sei posti di lavoro (3 dentro e 3 nell’indotto).
L’Ocse, l’organizzazione che raccoglie i paesi sviluppati, ha provato ad analizzare come queste due tendenze agiscono concretamente nel mercato del lavoro. Il congelamento dei salari, ormai privi di collegamento con la produttività, è per un terzo il risultato del fatto che i posti di lavoro persi nell’industria manifatturiera vengono rimpiazzati da posti nei servizi, pagati peggio. Per altri due terzi, dalla decimazione che software e tecnologia hanno portato, in generale, in quelli che una volta erano “i buoni posti delle classi medie”: quelle occupazioni a media qualifica (dal contabile alla hostess) che stanno scomparendo sempre più in fretta. Negli ultimi vent’anni questi posti di lavoro sono diminuiti del 10 per cento, mentre sono aumentati quelle a bassa qualifica (pagati peggio) e quelli ad alta qualifica (che però sono pochi).
In Italia, basse e alte qualifiche sono aumentate del 5 per cento. L’effetto, sul mercato del lavoro, è la formazione di un “esercito industriale di riserva”, assai più ampio di quanto dicano le statistiche. Lo nota la Bce di Draghi: il tasso di disoccupazione ufficiale, nell’eurozona, è al 9,5 per cento, ma, se aggiungiamo gli scoraggiati, cioè quelli che non pensano di poter trovare un lavoro adeguato, e quelli che hanno accettato un posto part time, ma lavorerebbero volentieri di più, si arriva ad un impressionante 18 per cento. In Italia, ancora peggio, al 25. A Francoforte, sono tornati a giugno sull’argomento con un nuovo studio che illustra come funziona l’esercito industriale di riserva. In buona sostanza, spiegano le imprese, siamo in grado di “aggiustare” i salari, non tanto di chi è già dipendente, ma dei nuovi assunti.
Insomma, raccontano i ben torniti rapporti di istituzioni al di sopra di ogni sospetto di radicalismo, il monte salari non si muove perché le imprese svuotano i posti ben pagati e li sostituiscono con un software, con un part time o con uno stipendio più basso. Il futuro non sembra più confortante. Secondo due noti economisti, David Autor e Lawrence Katz, quel futuro, infatti, è delle aziende Superstar. Sono le imprese di successo, capaci di grande produttività, pochi lavoratori molto qualificati, grandi profitti. Man mano, negli Usa e in Europa, fanno fuori le altre, che hanno più lavoratori, ma sono meno produttive. I loro addetti sono ben pagati, ma sono pochi. La massa complessiva dei salari, quindi, diminuisce. Anche se per Draghi e Yellen è un problema.

MAURIZIO RICCI

 

Ripresa più solida, ma pressioni sui prezzi ancora insufficienti

 La ripresa “si sta irrobustendo”. E siccome è anche sospinta dalla domanda interna, Mario Draghi ritiene sia “meno vulnerabile” rispetto ad eventuali “shock esterni”, ossia agli scossoni geopolitici che stanno agitando il mondo da mesi. Ma a fronte delle pressioni crescenti, sopratutto dei Paesi nordeuropei, Germania in testa, perché la Bce esca dal lungo periodo di emergenza, Draghi ha messo le mani avanti. 

Il presidente della Bce ha ricordato qual è l’obiettivo principale dei guardiani della moneta – l’inflazione al 2% – e ha sottolineato che le pressioni sui prezzi sono ancora insufficienti per abbassare la guardia: “Abbiamo ancora bisogno di politiche monetarie molto accomodanti”. I salari “crescono ancora troppo lentamente”, per dirne una. Alcuni analisti hanno cominciato a scommettere su una diminuzione degli acquisti dei bond da 60 miliardi già a settembre – il presidente della Bce li ha invitati a mantenere il sangue freddo.

A una settimana da una riunione della Bce che rivedrà le stime sul Pil e sull’inflazione dell’eurozona e che molti analisti attendono con ansia per avere indicazioni sull’avvio dell’uscita dal Quantitative easing – l’acquisto di bond pubblici e privati da 60 miliardi di euro al mese – e persino l’orizzonte in cui Francoforte potrebbe ricominciare ad alzare i tassi, Draghi ha raffreddato le aspettative. 

Il presidente della Bce, solitamente restìo a fare commenti politici (a una domanda sulle elezioni in Italia ha risposto infatti di non essere la persona adatta per un commento sul tema), ha ribadito che l'”euro è irreversibile”, ma soprattutto che “non bisogna avere paura di cambiare i Trattati”, con evidente riferimento all’attuale ripartenza del motore franco-tedesco e ai piani annunciati da Angela Merkel ed Emmanuel Macron di voler rafforzare l’eurozona anche rivedendo i Trattati. “Dobbiamo assicurare l futuro dell’eurozona attraverso una costruzione più stabile e resistente”, ha detto.

Draghi, europeista di ferro, ha puntualizzato che “la vulnerabilità dell’eurozona” può anche essere ricondotta “una mancanza di autonomia fiscale – e la questione ora è capire come arrivarci”: Ma i due pilastri per raggiungerla sono “la fiducia e la convergenza”, secondo il presidente della Bce. D’altra parte, per il banchiere centrale italiano è chiaro che l’eterogeneità dei tassi di crescita tra le varie economie dell’area dell’euro rappresentino una fragilità e che siano riconducibili ai ritardi nelle riforme strutturali. Dunque, “servirebbe una discussione sulle riforme strutturali come quella che si fa sul bilancio”. 

Tonia Mastrobuoni

La Repubblica 29 maggio 2017

http://www.repubblica.it/economia/2017/05/29/news/mario_draghi_parlamento_europeo-166723528/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1

 

La Bce: tassi giù ancora a lungo

La Bce non ha intenzione di rialzare i tassi di interesse, ancora per lungo tempo, anzi potrebbe addirittura abbassarli. Tutto il contrario di quello che temono i mercati. La rassicurazione arriva dal bollettino della Banca centrale europea, secondo cui non è vero che la deflazione è già sconfitta. A tener già l’indice dei prezzi sono le componenti volatili come i prezzi del petrolio e degli alimentari.

Comunque la politica espansiva dà i suoi frutti e contribuisce a migliorare il quadro economico generale. La Bce nota che la disoccupazione nell’eurozona « è in calo ormai da quattordici trimestri consecutivi. Il tasso di disoccupazione ha continuato a scendere nel quarto trimestre del 2016, dopo aver toccato il massimo agli inizi del 2013». In gennaio è rimasto al 9,6 per cento, il livello minimo dal secondo trimestre del 2009. Ma, avverte l’Eurotower, anche se l’andamento è positivo, «permane un considerevole eccesso di offerta sul mercato del lavoro e di sottoutilizzo. Sebbene i disoccupati nel mercato del lavoro siano diminuiti, sono ancora molti quelli che non sono considerati disoccupati ma potrebbero competere per i posti di lavoro, limitando quindi le pressioni salariali». Anche questo deprime l’inflazione, e rappresenta una tendenza di fondo, non volatile come i prezzi del petrolio o degli alimentari.

Luigi Grassia

La Stampa, 23 marzo 2017

http://www.lastampa.it/2017/03/23/economia/la-bce-tassi-gi-ancora-a-lungo-8MtxRQqFI4IK9YyK59bebL/pagina.html

 

Il caro verdura e il petrolio. Ma dietro il costo della vita quei segnali di mini-ripresa

iflaziones Messi tutti in fila, gli ultimi dati – dall’inflazione italiana all’indice europeo Pmi, senza trascurare l’Ifo – descrivono uno scenario in movimento che sembra dare segnali di ripresa ma che impone nell’interpretazione una certa cautela.
L’inflazione in Italia è in crescita dell’1% rispetto a gennaio 2016. Il Purchasing managers index dell’Eurozona, cioè l’indice composito dell’attività manifatturiera, che tiene conto dei nuovi ordini, delle consegne e delle scorte, è volato ai massimi da quasi sei anni, spinto da Francia e Germania. E l’indice Ifo, che misura la temperatura della fiducia delle imprese tedesche, a febbraio è salito nonostante l’incertezza politica in Europa. che lo aveva fatto calare a gennaio.
Sull’inflazione italiana hanno pesato fattori esterni: la ripresa del petrolio e di conseguenza dei prodotti energetici, a partire da diesel (+13,9%) e benzina (+9,3%), e il maltempo che ha colpito il Centro-Sud, penalizzando le colture e spingendo in alto i prezzi di verdura (+20,4%) e frutta (+7,3%). Però al netto degli alimentari freschi e dei beni energetici, l’inflazione di fondo è calata allo 0,5% dallo 0,6% del mese precedente.
Ma è chiaro che se la tendenza dei prezzi dovesse essere confermata, tenuto conto che in gennaio l’inflazione media nell’eurozona è stata pari all’1,8% e nella Ue a 28 pari all’1,7%, l’obiettivo che si è dato il presidente della Bce Mario Draghi di portarla a un livello vicino ma inferiore al 2% si starebbe avvicinando. Il che avrebbe un impatto sul Quantitative easing messo in campo dalla Bce per stabilizzare i prezzi (ma che ha anche l’effetto di abbassare il costo del rifinanziamento del debito pubblico italiano).
Si tratta ora di capire quanto la domanda sia ripartita anche in Italia, oltre che in Europa. La ripresa del costo della vita fotografa, infatti, un’economia in salute se a fare da traino è la crescita dei consumi che si traducono in un aumento della domanda di beni e servizi. Per Unimpresa si tratta di «segnali di ripresa, anche se timidi» e che «vanno colti subito e non sprecati».
Certo «è un po’ presto per definirlo un segnale positivo», spiega il capoeconomista di Intesa Sanpaolo, Gregorio De Felice: «La ripresa della domanda resta debole nel nostro Paese. Depurata dai prodotti energetici e dagli alimentari, l’inflazione core rallenta. Il ciclo però si sta stabilizzando in Europa guidato dalla Germania. Siamo in presenza di un quadro discreto nella Ue. Ha sorpreso verso l’alto l’indice Ifo». «Ora bisogna vedere cosa accadrà nei prossimi mesi – conclude De Felice —. Mi riferisco ai rischi politici: il protezionismo promesso da Trump, i movimenti populisti, le elezioni a metà marzo in Olanda e poi in Francia».

FRANCESCA BASSO
Corriere della Sera, 23 gennaio 2017

La crescita dell’Europa da sola non basta

bussueBene la situazione economica nell’Eurozona al punto che la crescita del suo Pil, salito dell’1,7% l’anno scorso, supera l’1,6% messo a segno dagli Stati Uniti. Non accadeva da anni. Non solo. La disoccupazione è calata sotto il 10% mentre la nascita di nuovi posti di lavoro tocca i massimi da 9 anni. Si consolida la fiducia delle imprese e la produzione segna un record quinquennale. Anche l’inflazione riparte e si avvicina, con l’1,8% medio in gennaio, al traguardo del 2%.

Finalmente la politica monetaria espansiva della Bce di Mario Draghi sta raccogliendo frutti ma non per questo ha potuto né può da sola risolvere tutti i problemi. Anche perché a sua volta ne crea, specialmente in Germania. Il tema sarà tra quelli caldi dell’incontro oggi a Berlino con Angela Merkel.

Dai tempi del famoso «whatever it takes», che nell’estate del 2012 spense l’incendio che rischiava di mandare a fuoco l’intera eurozona, il cancelliere tedesco è sempre stato l’alleato attento e silenzioso dietro la strategia via via sempre più ampia ed efficace del super-banchiere europeo.

Oggi, quasi 5 anni dopo, la scommessa della stabilizzazione ancora non è vinta. Indebolita ma decisa a conquistarsi il quarto mandato consecutivo alle legislative di settembre, la Merkel ha bisogno che il tacito sodalizio continui, magari anche con un gesto di Draghi, un segnale sull’aumento dei tassi di interessi che prima o poi rassicuri i furiosi risparmiatori tedeschi. E al tempo stesso aiuti a calmare gli attacchi dell’America di Donald Trump, le sue sventagliate protezionistiche verso l’Europa e la Germania in particolare.

Più facile da dire che da fare.

La congiuntura dell’Eurozona va. Verrebbe forte la tentazione di convincersi che l’incubo della lunga crisi finanziaria del 2008 sia ormai agli sgoccioli e per l’euro stia per tornare l’età felice degli esordi. Non è così.

Perché ancora non è chiaro quanto l’attuale schiarita sia sostenibile e il sorpasso degli Stati Uniti duraturo: lunedì davanti al parlamento europeo Draghi ha affermato che gli attuali stimoli Bce, quantative easing e bassi tassi, sono ancora necessari. Perché il rilancio dell’inflazione potrebbe presto mettere sotto pressione il mantenimento della sua politica espansiva, per la gioia dell’euro del Nord ma dolori certi per i Paesi indebitati del Sud.

Perché, infine, se le variabili congiunturali sono incoraggianti, quelle strutturali restano problematiche. La grande crisi finanziaria ha infatti approfondito le divergenze dentro l’Eurozona complicando ulteriormente il governo della politica monetaria unica.

Dietro il rafforzamento della ripresa c’è un quadro molto differenziato: l’anno scorso la Germania è cresciuta dell’1,9%, la Spagna del 3,2%, l’Irlanda del 4% e l’Italia, sempre fanalino di coda, meno dell’1%. Ci sono focolai di crisi irrisolti nell’arco mediterraneo, con lo spettro del default estivo che torna ad affacciarsi in Grecia: a tutti i suoi guai, ora aggiunge anche la lite tra i suoi creditori dell’Eurogruppo e l’Fmi sul grado di rigore aggiuntivo e ristrutturazione del debito da imporle. C’è l’Italia a sua volta gravata da un debito-monstre da ridurre e dall’ipoteca di un sistema bancario fragile.

La corsa degli spread, che non sembra arrestarsi e in questi giorni non cessa di registrare il crescente divario tra bund tedesco e i titoli di Stato decennali di Grecia, Italia e Francia, è lo specchio impietoso dei fossati strutturali che dividono l’Eurozona e che, in quest’anno elettorale per Olanda, Francia, Germania e forse Italia, si cumulano alle incertezze sul futuro della stabilità politica dell’area.

In Olanda il partito della Libertà di Geert Wilders, anti-europeo, è primo nei sondaggi. Come lo è in Francia il Fronte nazionale di Marine Le Pen, che promette il referendum sulla permanenza o meno del Paese nella moneta unica. In Italia M5S e Lega sono su posizioni analoghe. In Germania la sfida dell’AfD erode ai fianchi la Cdu-Csu della Merkel anche se non vanta il livello di consensi dei movimenti europei “fratelli”.

Di tutto questo, del rischio ingovernabilità politica, economica, monetaria e finanziaria dell’euro e dei rimedi possibili parleranno a Berlino il cancelliere e il presidente della Bce. Come delle promesse e dei pericoli di un’Europa a geometrie variabili, tra eccesso di spinte centrifughe nell’aria e l’irrevocabilità dell’euro da difendere a tutti i costi.

Non ci sono risposte né soluzioni facili per nessuno dei due.

Adriana Cerretelli

Il Sole 24 ore, 9 febbraio 2017

 

 

Inflazione Ue, timori sui tassi

L’inflazione nella zona euro è tornata a correre e si sta avvicinando alla soglia per la stabilità dei prezzi che la Banca centrale europea si è posta come obiettivo: «Vicina ma inferiore al 2%». Il tasso di inflazione annuale a gennaio nell’eurozona — ha certificato ieri Eurostat — è atteso in netto rialzo all’1,8% rispetto all’1,1% di dicembre, trascinato dai prezzi dell’energia. Certamente la salute dell’eurozona è in netto miglioramento, ha ripreso a crescere e anche l’andamento dell’inflazione lo dimostra . In Germania è ormai vicina all’1,9%, in Spagna è volata al 3% annuale a gennaio, ai massimi da oltre quattro anni (a dicembre era dell’1,4%). E in Francia ha sì registrato un calo dello 0,2% nel primo mese del 2017 (comunque meglio delle attese degli analisti), ma su base annua l’incremento sarà dell’1,4%. In questo scenario si distingue l’Italia, che stima un +0,2% per il quarto trimestre 2016 e secondo Bankitalia va verso un +0,9% nell’intero 2016. A riprova che la ripresa nel nostro Paese resta fragile. Ad aprile la Bce rallenterà il quantitative easing dagli attuali 80 miliardi al mese a 60 miliardi, sino a fine anno. Ma ci sono i tedeschi, che andranno alle urne in autunno, in pressing sulla Banca centrale europea. E per l’Italia sarà un problema.

Francesca Basso

Corriere della SerA, 1 Febbraio 2017

 

Italia nel 2016 in deflazione, è la prima volta dal 1959

deflassL’Italia nell’insieme dello scorso anno è risultata in deflazione. È la prima volta che succede da oltre mezzo secolo. Nel 2016 i prezzi al consumo, secondo i dati provvisori dell’Istat, hanno registrato infatti una variazione negativa dello 0,1% come media d’anno. «È dal 1959 (quando la flessione fu pari a -0,4%) che non accadeva», rileva l’istituto di statistica.
La cosiddetta «inflazione di fondo», calcolata al netto degli alimentari freschi e dei prodotti energetici, rimane invece in territorio positivo (+0,5%), pur rallentando la crescita da +0,7% del 2015.

Obiettivo Bce mancato

La deflazione è il calo dei prezzi ed è il fenomeno opposto dell’inflazione, che si ha quando i prezzi salgono. La deflazione deriva da un rallentamento della spesa di consumatori e aziende e indica che la domanda di beni e servizi è debole e quindi che l’economia non è in salute. La Bce fissa come obiettivo dell’inflazione un livello vicino al 2 per cento.

Dicembre in positivo

Nel mese di dicembre 2016, secondo le stime preliminari, l’indice nazionale dei prezzi al consumo per l’intera collettività, al lordo dei tabacchi, è salito dello 0,4% rispetto al mese precedente e dello 0,5% nei confronti di dicembre 2015. L’aumento su base mensile dè principalmente dovuto agli aumenti dei prezzi dei servizi relativi ai trasporti (+1,9%), degli energetici non regolamentati (+1,1%), degli alimentari non lavorati (+1,0%) e dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,5%). I prezzi dei beni alimentari, per la cura della casa e della persona crescono dello 0,4% in termini congiunturali (su mese) e dello 0,6% in termini tendenziali (da -0,1% di novembre). I prezzi dei prodotti ad alta frequenza di acquisto aumentano dello 0,3% su base mensile e dell’1% su base annua (era +0,5% a novembre). L’inflazione nell’Eurozona sale all’1,1% annuale a dicembre, contro il +0,6% di novembre, al top dal dicembre 2013, emerge dalle prime stime flash di Eurostat. Gli analisti si aspettavano un incremento più contenuto dell’1%.

Il traino della benzina

«Il balzo dei prezzi nell’ultimo mese dell’anno è da attribuire unicamente al caro-benzina, con i distributori di carburanti che hanno fortemente rincarato i listini determinando aumenti in tutti i settori», sostiene Carlo Rienzi, presidente del Codacons, commentando i dati sull’inflazione diffusi oggi dall’Istat. «La frenata dei prezzi al dettaglio nel 2016 è il frutto del crollo record dei consumi registrato in Italia negli ultimi anni. L’attesa ripartenza della spesa da parte delle famiglie non si è verificata, e complessivamente negli ultimi 8 anni i consumi degli italiani sono calati di ben 80 miliardi di euro».

Fausta Chiesa

Corriere della Sera, 4 gennaio 2017

http://www.corriere.it/economia/17_gennaio_04/italia-2016-deflazione-prima-volta-1959-46d27664-d265-11e6-af42-cccac9ae7941.shtml

Gli stipendi più bassi dell’Ue? Agli italiani

astipUna interessante fotografia sulla situazione dei salari dell’Unione Europea viene proposta questa volta dall’Eurostat, che nella sua indagine quadriennale nota come SES, Structure of earnings survey, mette in rilievo le forti disparità salariali tra Nord e Sud Europa. Prendendo come parametro di riferimento il salario medio lordo orario, i Paesi con le retribuzioni più alte sono la Danimarca con un’ora di lavoro retribuita 25,50 euro, l’Irlanda con 20,20 euro, la Svezia con 18,50 euro e il Lussemburgo con 18,40. In fondo alla classifica troviamo la Bulgaria con 1,70 euro per un’ora di lavoro, la Romania con 2 euro e la Lituania con 2,10 euro. L’Italia si assesta invece sulla media di 12,50 euro inferiore ai 15,70 della Germania e sotto la media dei Paesi dell’Eurozona pari 14 euro.
Emerge dunque un quadro che vede confermata la tendenza di un calo dei salari italiani rispetto alla media europea, come aveva rivelato la stessa Eurostat nel giugno di quest’anno. La retribuzione oraria dell’Italia è scesa a -0,5%, in controtendenza con il resto dei paesi dell’Ue dove è salita dell’1,7%. Esclusi i paesi baltici e dell’Est Europa, dove il livello dei salari è stato sempre inferiore rispetto alla media dell’Unione, il gap più rilevante è tra Nord e Sud Europa, nel quale Paesi come Portogallo vedono retribuzioni orarie di 5 euro, Cipro con 8,40 euro e la Spagna con 9,80 euro. I paesi «vincitori» dell’Eurozona come Germania, Olanda e Belgio hanno invece retribuzioni orarie 3 volte superiori al Portogallo.
Ma il dato più interessante è quello che riguarda la struttura del mercato del lavoro dei paesi dell’Unione, e in particolare la quota dei lavoratori con bassi salari rispetto al totale complessivo. A fare compagnia ai Paesi dell’Est Europa in questa classifica c’è la Germania con il 22,5% dei lavoratori tedeschi che ricevono un salario non superiore ai 400 euro. Un dato ben al di sopra della media Ue del 17,2%. Il fenomeno è facilmente giustificabile con la struttura del mercato del lavoro tedesco che negli anni 2000 è stato riformato attraverso le riforme Hartz che hanno portato decisamente verso il basso il livello dei salari. È la strategia perseguita dalla Germania dall’inizio dell’Eurozona con la quale ha realizzato enormi surplus commerciali a spese dei suoi vicini. Il costo della deflazione salariale è gravato soprattutto sulle spalle dei giovani.
L’identikit del lavoratore a basso costo è tracciato perfettamente dall’Eurostat: per la maggioranza si tratta di donne sotto i 30 anni con un livello di istruzione inferiore. Si conferma quindi la correlazione negativa tra salari più bassi e il livello di istruzione. Emerge quindi un quadro salariale dell’Ue dalle differenze profondamente marcate tra il Nord e il Sud Europa, nel quale l’euro ha certamente avuto un ruolo decisivo. Non va dimenticato, inoltre, che all’interno dell’Eurozona sono impossibili svalutazioni del cambio che consentirebbero ai paesi del Sud Europa, Italia in primis, di rilanciare il proprio export. Resta a disposizione solamente l’altro strumento della deflazione salariale, ma questa impedisce qualsiasi ipotesi di aumento della domanda interna e dei consumi domestici. I risultati sono una competizione al ribasso sul livello dei salari con la spirale deflattiva che continua ad affliggere l’Eurozona.

Cesare Sacchetti
LIBERO, 14 DICEMBRE 2016

Altri nove mesi di Qe

qeeeLa Banca centrale europea ha annunciato che apporterà modifiche al suo programma di acquisto di titoli di stato. Fino a marzo del 2017, l’istituto di Francoforte continuerà a comperare dal mercato titoli per 80 miliardi di euro al mese. A partire da aprile, fino a dicembre, il volume di acquisto scenderà a 60 miliardi di euro al mese. Il presidente, Mario Draghi, ha detto che in ogni caso il Consiglio direttivo si riserverà la facoltà di incrementare gli acquisti, se questo si rivelasse utile per mantenere lo stimolo monetario eccezionale all’economia dell’Eurozona, e che questi continueranno oltre dicembre 2017, “se necessario”.

I tassi di interesse dell’euro sono stati tenuti fermi a zero, e il tasso dei depositi bancari presso la Bce è rimasto inalterato a meno 0,4 per cento. Draghi ha specificato che le misure adottate dalla Bce non equivalgono al “tapering” introdotto dalla Federal Reserve degli Stati Uniti, quando decise di ridurre il proprio piano di acquisto di titoli.

Il presidente dell’Eurotower ha confermato le stime per la crescita del pil dell’Unione europea nel 2016, a più 1,7 per cento, mentre sono aumentate dello 0,1 per cento quelle per il 2017, pure a più 1,7 per cento. Per il 2018 e il 2019, le Bce ha previsto una crescita di più 1,6 per cento. Draghi ha chiesto a tutti i paesi dell’Eurozona di procedere con le riforme strutturali dell’economia, che “restano essenziali e vanno aumentate significativamente” per poter raggiungere dei migliori livelli di crescita anche quando gli acquisti di titoli diminuiranno.

Il Foglio

http://www.ilfoglio.it/economia/2016/12/08/news/draghi-decide-per-altri-9-mesi-di-qe-e-la-riduzione-degli-acquisti-dei-bond-a-60-miliardi-110070/

Petrolio, salari e Usa. Ecco perché adesso ritorna l’inflazione

 
 iflazz«La notizia della mia morte è fortemente esagerata». Le parole di Mark Twain sono le più adatte a descrivere il ritorno dell’inflazione, che ha rialzato la testa nonostante le cupe predizioni di una deflazione secolare.
Gli ultimi dati dell’Ocse mostrano come a settembre nei Paesi ricchi i prezzi siano cresciuti a un ritmo annuale dell’1,2%, il tasso più alto da inizio anno. Negli Usa, l’inflazione è ormai all’1,6%, mentre nel Regno Unito, si è attestata allo 0,9%. Anche nell’eurozona il dato ha toccato lo 0,5%, il massimo da due anni e mezzo.
Questi numeri sono ovviamente ancora inferiori a quel 2% che la maggioranza degli economisti ritiene essere la giusta àncora di stabilità dei prezzi. Molte banche centrali stanno però già rispondendo: Janet Yellen, presidente della Us Federal Reserve, ha fatto intendere ieri che un rialzo dei tassi a dicembre è molto probabile. Le possibilità di un nuovo stimolo monetario nel Regno Unito dopo quello di agosto si sono di fatto azzerate. La causa è proprio la prospettiva di un’accelerazione dei prezzi legata anche alla svalutazione della sterlina dopo il referendum su Brexit.
Il segnale più visibile del ritorno dell’inflazione è nel mercato delle obbligazioni, dove gli investitori stanno chiedendo tassi più alti per compensare il rischio di un aumento dei prezzi. I bond decennali del governo Usa sono oltre il 2,20%. Anche nell’eurozona i rendimenti sono risaliti: i Btp a 10 anni erano ieri al 2,09%, con uno spread di 181 punti base rispetto al bund tedesco che, comunque, è tornato in territorio positivo dopo essere stato a lungo sottozero.
La recente accelerazione dei prezzi ha prima di tutto a che fare con il costo delle materie prime e, soprattutto, del petrolio. Tra giugno 2014 e gennaio 2016, il prezzo del Brent è sceso del 75%, arrivando a 29 dollari al barile. Da allora, il petrolio è risalito fino ai 47 dollari, contribuendo in maniera meccanica a spingere in su l’inflazione. L’altro motivo ha a che fare con la tiepida ripresa dei salari che si è palesata negli Stati Uniti, in Germania e soprattutto in Gran Bretagna.
Guardando avanti, gli spiriti animali degli investitori sono eccitati dalla prospettiva di un corposo taglio delle tasse da parte del presidente eletto Usa Donald Trump. Una manovra espansiva in una fase di crescita avrebbe l’effetto immediato di far avanzare ancora l’inflazione Usa. Misure protezioniste, come dazi sui prodotti provenienti da Cina e Messico e restrizioni all’immigrazione, potrebbero aggiungere secondo alcuni fondi, circa 0,3 punti percentuali agli indici di crescita dei prezzi. Le importazioni dall’America spingerebbero in alto i prezzi nel resto del mondo, contribuendo a una reflazione globale. Non è un caso che le aspettative di inflazione siano in rapida risalita.
C’è però chi la reflazione ancora non la vede: in Italia, per esempio, i prezzi sono scesi dello 0,2% a ottobre. Anche la Banca centrale europea non è convinta che le tendenze inflazionistiche siano durature. Nei resoconti della riunione del consiglio direttivo di ottobre pubblicati ieri, si legge come i banchieri centrali guidati da Mario Draghi restino convinti che la ripresa europea rimanga debole e dipenda in larga parte dalla politica monetaria espansiva della stessa Bce. L’inflazione “core”, che toglie gli elementi di volatilità come il petrolio, è bloccata allo 0,75% e Draghi ha detto che questo indicatore sarà importante per le decisioni future di Francoforte. Pertanto, nonostante la resurrezione dell’inflazione, molti analisti non si aspettano che la Bce interrompa gli acquisti di bond in scadenza a marzo 2017.
Ferdinando Giugliano
la Repubblica, venerdì 18 novembre 2016