L’economia dà i numeri

stattttL’esperimento richiede pochi secondi. Nella stringa di ricerca di Google bisogna digitare tre parole: «disoccupazione giovanile Italia». Le informazioni che si ottengono dalle pagine internet trovate non sembrano giustificare dubbi: «Istat: la disoccupazione giovanile risale al 40,1%». «Disoccupazione dramma per i giovani: superato il 40%». «Lavoro, a dicembre il tasso di disoccupazione dei giovani di nuovo oltre il 40%». Che idea ci si fa dei ragazzi senza lavoro? All’apparenza la risposta sembra di una evidenza elementare: che la disoccupazione giovanile è, appunto, oltre il 40%, ovvero che più di 4 giovani su 10 sono disoccupati.
Ovvio, ma sbagliato. In realtà i giovani disoccupati sono uno su dieci. Come è possibile? Molto semplicemente tutto dipende dalla definizione di tasso di disoccupazione giovanile: secondo le classificazioni europee, accolte dall’Istat e dagli altri enti statistici dell’Unione, la cifra si ottiene dividendo i disoccupati per i lavoratori attivi (occupati e disoccupati) che hanno tra i 15 e i 24 anni. Disoccupato, però, è solo chi, nelle quattro settimane precedenti la rilevazione, ha cercato lavoro ed è disponibile a lavorare. La limitazione esclude dal divisore non solo i cosiddetti «scoraggiati», quelli che il lavoro non lo cercano nemmeno, ma soprattutto quelli che non lavorano perché stanno facendo altro, e cioè studiando, ovvero l’85% o giù di lì dei ragazzi. Il numero preso in considerazione è dunque estremamente ridotto. Se si considera tutta la popolazione di quella fascia di età, i disoccupati sono il 10,9% del totale, cifra comunque importante, specie se la si confronta con quella di altri Paesi, ma ben lontana dal drammatico 40% citato all’inizio.
La morale di quanto detto fin qui è che i numeri possono rappresentare una potente cortina fumogena. E più in generale che per quanto le statistiche sembrino fatti incontrovertibili, iscritte nell’ordine necessario delle cose, in realtà sono semplici interpretazioni della realtà. I numeri sono raccolti e organizzati con criteri più o meno corretti, da persone che hanno i loro limiti e i loro pregiudizi; poi vanno valutati e contestualizzati. Eppure le cifre hanno un fascino e una patina di oggettività che appare irresistibile. Lewis Carrol, noto per aver scritto Alice nel paese delle meraviglie, ma matematico di professione, non aveva esitazioni: «Se vuoi ispirare fiducia, dai molti dati statistici. Non importa che siano esatti o che siano comprensibili. Basta che siano in quantità sufficiente». 

ATTENTI AI GIOVANI
Un imbroglio bello e buono, insomma. Per smascherarlo bisogna capire come i numeri e le statistiche nascono e come sono organizzate. Non sempre è facile. L’esempio già citato, quello della disoccupazione giovanile, è interessante: il dato finale è frutto di un rapporto, ma per valutarlo bisogna prima fare caso alle grandezze messe a confronto. L’osservazione si può generalizzare per tutte le rilevazioni sulla disoccupazione. Il bollettino mensile dell’Istat con le ultime cifre sui senza lavoro (per la sua sinteticità è chiamato «flash») è fatto di 11 pagine di chiarimenti e note metodologiche . Nell’ultima campagna elettorale americana uno dei punti di polemica è stato proprio il tasso di disoccupazione. Chi, come Hillary Clinton voleva valorizzare l’eredità di Barack Obama, citava il dato più utilizzato, in base al quale i disoccupati sono il 4,8% (si conteggia chi dichiara di volere un lavoro e ha fatto almeno una ricerca di un posto nel mese precedente, mentre occupato è chi ha lavorato anche un numero minimo di ore). Donald Trump, invece, si riferiva di solito a un altro dei sei indicatori usati abitualmente, in cui oltre ai disoccupati si tiene conto anche dei «sottoccupati», di chi, per esempio, lavora solo poche ore alla settimana. E in questo caso il dato era del 9,8%. A volte prendeva in considerazione anche gli inattivi (chi è di fatto fuori dalla forza lavoro), raggiungendo quasi quota 40%.
Per quanto riguarda l’Italia i dati sui senza lavoro hanno alimentato negli ultimi anni più di una polemica: quella per il contrasto tra le cifre dell’Istat, e quelle del ministero del Lavoro. L’istituto statistico nazionale pubblica ogni trimestre un’indagine campionaria che si propone di essere una fotografia completa sull’impiego, in cui i «posti» vengono valutati indipendentemente dal tipo di contratto e, entro certi limiti, dalla loro posizione fiscale (si tiene conto così anche del sommerso).
PIL BALLERINO
Questo documento è poi affiancato da una rilevazione mensile con un campione ridotto. Quanto al ministero del Lavoro il suo compito è quello di diffondere i dati sulle comunicazioni obbligatorie e ufficiali di avvio di un rapporto di lavoro. Ovvio che i numeri possano spesso non coincidere.
Un’altra polemica, questa volta del 2016, ha riguardato la diffusione di due dati relativi al Pil.

Prima, in febbraio, è stata diffusa la cifra dell’ultimo trimestre, qualche giorno dopo il bilancio annuale. E almeno all’apparenza i due numeri non tornavano. Colpa delle diverse metodologie che prevedono per esempio che il dato trimestrale venga destagionalizzato (depurato cioè delle specificità relative al periodo considerato per confrontarlo con i periodi precedenti). La destagionalizzazione, invece, non è prevista per il dato annuale, perché si presuppone che nel corso dei 12 mesi le contingenze stagionali si compensino e sia possibile il paragone con il periodo precedente. Il risultato di queste tecnicalità statistiche conduce a piccole differenze, scostamenti a volte decimali che spesso bastano per alimentare infuocate polemiche politiche. Anche tenendo conto che, per esempio in base al Pil vengono calcolati i saldi di finanza pubblica, tenuti d’occhio con implacabile precisione dai guardiani dei conti di Bruxelles.
Nel migliore dei mondi possibili a fare da tramite tra la complessità delle statistiche e il cittadino sarebbero i media. Ma in tempi a cui dominare la politica è la post verità, la spregiudicata affermazione dell’irrilevanza dei fatti, il dibattito pubblico è diventato anche post-statistico. Numeri e cifre vengono strizzati e deformati a seconda delle convenienze, mentre velocità e sinteticità dell’informazione impediscono analisi meditate. Un rischio, perché i numeri corretti sono un bene pubblico, premessa di deliberazioni informate. Tra i documenti fondativi dell’Onu c’è la Carta sui principi fondamentali della statistica ufficiale. E le regole sancite partono dal presupposto che «l’informazione statistica è una base essenziale per lo sviluppo in campo economico, demografico, sociale e ambientale e per la mutua conoscenza e il commercio tra gli Stati e i popoli del mondo».

IL METODO CRISTINA
Per avere un’idea del significato politico dei numeri basta guardare all’etimologia: statistica è la scienza «relativa allo Stato», e la disciplina è nata nel XVII secolo in Inghilterra come «aritmetica politica». Più istruttivo ancora richiamare esempi come quello greco o argentino. Ad Atene l’unico che sembra destinato a pagare la falsificazione dei numeri del bilancio statale che ha dato il via alla crisi è il capo dell’Istat locale. Non quello che collaborò a «truccare» le cifre, al contrario il funzionario che, inviato dal Fondo Monetario Internazionale, contribuì a far emergere l’imbroglio . In Argentina, invece, il governo demagogico-peronista di Cristina Kirchner, messo di fronte alla propria incapacità di frenare l’inflazione, male endemico del Paese, decise di tagliare la testa al toro: sostituì i dirigenti dell’Ufficio nazionale di statistica, che ogni mese misuravano l’aumento dei prezzi, per sostituirli con uomini fidati. E questi ultimi, come da istruzioni ricevute, iniziarono a certificare ufficialmente che l’inflazione a Buenos Aires e dintorni era miracolosamente scomparsa. Due casi limite di strumentalizzazione del mondo dei numeri e delle rilevazioni.
Per ridurre i rischi la strada maestra sarebbe quella di un’alfabetizzazione di base in materia statistica. In Italia siamo però lontani dall’obiettivo. A pesare è la tradizionale difficoltà nell’insegnamento anche della semplice matematica. E a darne la prova è un piccolo gioco. Si tratta di ridurre del 30% una cifra data, per esempio 100. E poi di aumentare la cifra così ottenuta dello stesso 30%. Si ritorna al punto di partenza? Di solito in moltissimi rispondono di sì. Ovviamente la risposta giusta è no. Anche nel secondo caso si tratta di un rapporto, ma la base delle due operazioni è diversa. Riducendo il numero 100 del 30% si ottiene 70, ma il 30% di 70 è solo 21. Anche i numeri più semplici hanno i loro (apparenti) misteri.

ANGELO ALLEGRI

il Giornale, 27 febbraio 2017

http://www.ilgiornale.it/news/leconomia-d-i-numeri-1368968.html

 

 

La Ue offre protezione ma non dà dinamismo

eurrrrCaro direttore, Roberto Sommella ha scritto qualche giorno fa che l’euro è rimasto orfano. Ha ragione, in pochi lo difendono eppure ci sono tantissime ragioni per farlo. L’euro ci ha offerto una protezione molto forte rispetto alle turbolenze monetarie. Molti hanno dimenticato le tensioni e gli inconvenienti economici provocati dalle fluttuazioni dei tassi di cambio. Gli anni Settanta, Ottanta e la prima metà degli anni Novanta sono stati dominati delle continue crisi della lira e di altre valute nazionali.

Cosa sarebbe successo alle monete europee nel 2008/2009 se non avessimo avuto l’euro? Nel 2011 siamo riusciti ad evitare per poco una crisi delle nostre finanze pubbliche. Se non avessimo avuto l’euro, le tensioni di quei mesi si sarebbero ripercosse anche sul tasso di cambio della nostra moneta rendendo la situazione ingestibile.

Uno degli obiettivi dell’unione monetaria era di darci tassi di interesse più bassi e offrire alle nostre imprese un accesso ai finanziamenti simile a quello disponibile per le imprese di altri Paesi. Ancora non abbiamo raggiunto completamente questo obiettivo, ma ci siamo andati molto vicini. In ogni caso, gli effetti sulle nostre finanze pubbliche sono stati spettacolari. Nel 1996 il nostro Paese ha pagato per interessi sul debito pubblico una cifra equivalente a 115,6 miliardi di euro su di un debito pubblico di poco più di 1.200 miliardi di euro; nel 2004 abbiamo pagato 66,7 miliardi di euro di interessi su di un debito pubblico che nel frattempo era salito a 1.450 miliardi di euro! Abbiamo risparmiato quasi 50 miliardi di euro all’anno. Che succederebbe se ricominciassimo ad emettere titoli di Stato in una nostra moneta nazionale?

Ai tempi delle valute nazionali e del Sistema monetario europeo la Bundesbank di fatto decideva la politica monetaria europea. Un governatore della banca centrale belga, Fons Verplaetse, dichiarò in una famosa intervista che la sua «autonomia» era di 15 minuti; questo era il tempo che aveva tra l’essere informato di un aumento dei tassi di interessi tedeschi e l’annunciare un aumento corrispondente dei tassi di interesse belgi. Oggi la Bce segue una politica monetaria determinata dalle necessità dell’insieme della zona euro, cosa che non piace affatto alla Bundesbank che vorrebbe una politica ben diversa.

E non dimentichiamo poi gli aspetti politici. Pensiamo al senso di appartenenza ad un insieme integrato che dà il fatto di poter pagare il ristorante con la stessa moneta da Lisbona a Bologna e da Palermo ad Helsinki. Per molti giovani l’Europa è l’euro, è il poter utilizzare il proprio telefonino ad un prezzo ragionevole dovunque siano in Europa e il poter viaggiare senza passaporto in tutto lo spazio Schengen.

Le grosse difficoltà economiche italiane di questi anni non sono poi dovute all’euro. È dalla metà degli anni Novanta che siamo il Paese con il più basso tasso di crescita di tutta l’Unione Europea. In questo periodo siamo cresciuti anche meno della Grecia. Se decidessimo di uscire dall’euro, che effetti si vedrebbero sulla durata media dei processi civili e penali, sui risultati dei nostri studenti nei test PISA dell’Ocse, sulle complicazioni burocratiche, sulla bassa efficienza della nostra pubblica amministrazione e sui tanti altri ostacoli strutturali alla nostra crescita?

Ci sono tante cose che devono essere fatte per far funzionare meglio la zona euro. Jacques Delors ha detto che l’euro protegge, ma di per sé non dà dinamismo. Molte di queste cose sono indicate in documenti che l’Unione Europea ha già adottato e altre sono ancora delle proposte. Ma anche non riuscissimo ad ottenere in tempi rapidi questi miglioramenti, sarebbe comunque nostro interesse rimanere in questa unione monetaria, pur con tutti i suoi limiti. La maggior parte dei problemi che abbiamo visto in questi anni era conosciuta e prevista e, nonostante questo, abbiamo voluto noi entrare nell’unione monetaria. La Germania e tanti altri Paesi ci consigliavano di restarne fuori.

Fabio Colasanti

Corriere della Sera, 24 febbraio 2017

L’America guarda a Orwell

848448Vince Trump, e le vendite di 1984 di Orwell schizzano alle stelle. Il New York Times vi ha dedicato pensosi editoriali, ma le ragioni sono più semplici. Tra tutti i numerosi romanzi distopici, dedicati cioè a descrivere l’utopia negativa di un mondo di dominio, quello di Orwell è uno dei più efficaci ma anche uno dei più facili (e non il lavoro migliore del grande inglese) È una lettura classica per l’adolescente medio – anche per noi che scriviamo, benché ai tempi ci fossero Reagan e in Italia Craxi. Inoltre 1984 fin dalla sua pubblicazione, il 1949, pochi mesi prima della morte del suo autore, fu un best seller mondiale. Perché la realtà dipinta era quella del comunismo, tanto che i lettori d’oltre cortina, che potevano averlo clandestinamente e a loro rischio, rimasero meravigliati di come Orwell conoscesse così bene quel mondo, pur non avendolo mai vissuto.
LA FORTUNA
Negli anni 1984 è diventato un prodotto pop: non si contano le serie televisive e i film (Brazil di Gilliam su tutti) ispirati al romanzo, così come le citazioni nelle canzoni rock (da Bowie agli Eurythmics ai Van Halen) o nelle serie come i Simpson. E del resto il padre di tutti i reality, il Grande Fratello appunto, al romanzo di Orwell si ispira.
Gli oppositori anti Trump probabilmente condividono con il loro nemico le stesse coordinate, pop e televisive: non a caso il presidente si è scelto come avversario politico Madonna.
CONFORMISMO
Per il resto, non c’è nulla in comune tra il mondo descritto in 1984 e l’America che Trump sembra promettere. A cominciare dal fatto che il Grande Fratello controlla tutti i media, mentre Trump li ha tutti contro, persino la Fox. Il clima di conformismo e da «puzza di cavoli» dell’inizio del romanzo era senz’altro maggiore ai tempi di Obama e di Bush.
Quanto a Orwell, che fu anche a suo modo un pensatore politico, l’arruolamento nella sinistra mondiale, come ha scritto di recente P.G. Battista, è del tutto «incrongruo». E non solo perché a suo tempo Togliatti lo definì spia del servizi segreti inglesi, «scemo», «abietto» e «meschino».
Orwell fu tutta la vita un seguace del Partito laburista inglese. Ma dopo aver visto in azione gli agenti di Stalin durante la guerra di Spagna, divenne uno tra i più feroci (e celebri, con Silone e Koestler) anticomunista, fino a passare al governo laburista inglese liste di proscrizione. 
SAGGEZZA POPOLARE
Nei suoi ultimi anni, quelli della stesura di 1984, sposò, come scrive Christopher Hitchens nel suo bellissimo Why Orwell Matters un socialismo conservatore, patriottico, attratto dalla «saggezza popolare», ostile agli intellettuali, ai gay e all’aborto e invece favorevole persino alla vendita libera delle armi. Non a caso diversi conservatori, come ad esempio Norman Podhoretz, hanno arruolato l’ultimo Orwell. E l’intellettuale di punta del «sovranismo» francese, a cui di recente «Le Monde» ha dedicato paginate, Jean Claude Michéa, già nel 1995 pubblicò sull’autore di 1984 un libro intitolato Orwell conservateur tory.
BIOGRAFIA
Certo i romanzi hanno una storia indipendente dalla biografia del loro autore. Orwell poi non era un pensatore sistematico e men che meno un militante politico, per cui le sue parole possono essere recepite tanto a destra quanto a sinistra – la New Left degli anni sessanta legittimò anche l’ultima sua fase. E naturalmente non ha alcun senso chiedersi se egli, oggi, sarebbe più vicino a Trump o a Hillary Clinton.
Anche se noi un’idea l’abbiamo. E forse come «idolo», gli anti-Trump dovrebbero eleggersene un altro.

MARCO GERVASONI
Il Messaggero 24 febbraio 2017

Il caro verdura e il petrolio. Ma dietro il costo della vita quei segnali di mini-ripresa

iflaziones Messi tutti in fila, gli ultimi dati – dall’inflazione italiana all’indice europeo Pmi, senza trascurare l’Ifo – descrivono uno scenario in movimento che sembra dare segnali di ripresa ma che impone nell’interpretazione una certa cautela.
L’inflazione in Italia è in crescita dell’1% rispetto a gennaio 2016. Il Purchasing managers index dell’Eurozona, cioè l’indice composito dell’attività manifatturiera, che tiene conto dei nuovi ordini, delle consegne e delle scorte, è volato ai massimi da quasi sei anni, spinto da Francia e Germania. E l’indice Ifo, che misura la temperatura della fiducia delle imprese tedesche, a febbraio è salito nonostante l’incertezza politica in Europa. che lo aveva fatto calare a gennaio.
Sull’inflazione italiana hanno pesato fattori esterni: la ripresa del petrolio e di conseguenza dei prodotti energetici, a partire da diesel (+13,9%) e benzina (+9,3%), e il maltempo che ha colpito il Centro-Sud, penalizzando le colture e spingendo in alto i prezzi di verdura (+20,4%) e frutta (+7,3%). Però al netto degli alimentari freschi e dei beni energetici, l’inflazione di fondo è calata allo 0,5% dallo 0,6% del mese precedente.
Ma è chiaro che se la tendenza dei prezzi dovesse essere confermata, tenuto conto che in gennaio l’inflazione media nell’eurozona è stata pari all’1,8% e nella Ue a 28 pari all’1,7%, l’obiettivo che si è dato il presidente della Bce Mario Draghi di portarla a un livello vicino ma inferiore al 2% si starebbe avvicinando. Il che avrebbe un impatto sul Quantitative easing messo in campo dalla Bce per stabilizzare i prezzi (ma che ha anche l’effetto di abbassare il costo del rifinanziamento del debito pubblico italiano).
Si tratta ora di capire quanto la domanda sia ripartita anche in Italia, oltre che in Europa. La ripresa del costo della vita fotografa, infatti, un’economia in salute se a fare da traino è la crescita dei consumi che si traducono in un aumento della domanda di beni e servizi. Per Unimpresa si tratta di «segnali di ripresa, anche se timidi» e che «vanno colti subito e non sprecati».
Certo «è un po’ presto per definirlo un segnale positivo», spiega il capoeconomista di Intesa Sanpaolo, Gregorio De Felice: «La ripresa della domanda resta debole nel nostro Paese. Depurata dai prodotti energetici e dagli alimentari, l’inflazione core rallenta. Il ciclo però si sta stabilizzando in Europa guidato dalla Germania. Siamo in presenza di un quadro discreto nella Ue. Ha sorpreso verso l’alto l’indice Ifo». «Ora bisogna vedere cosa accadrà nei prossimi mesi – conclude De Felice —. Mi riferisco ai rischi politici: il protezionismo promesso da Trump, i movimenti populisti, le elezioni a metà marzo in Olanda e poi in Francia».

FRANCESCA BASSO
Corriere della Sera, 23 gennaio 2017

La sinistra senza merito

images6Che cosa significhino oggi «sinistra» e «destra» non è affatto chiaro.

Sono di destra i lavoratori del Michigan e dell’Ohio che hanno eletto Trump scontenti per i loro salari stagnanti?

E sono di sinistra gli elettori della destra populista europea (compreso il Movimento 5 Stelle) contraria all’immigrazione per proteggere i lavoratori locali estendendo lo Stato sociale, ma solo a loro?

È di sinistra chi difende i pensionati atutti costi, opponendosi a ogni limitazione della spesa previdenziale, non curandosi del debito pubblico che peserà sui nostri nipoti? A noi pareva che Marx parlasse di lotta di classe non di lotta fra generazioni!

La sinistra tradizionale, quella degli anni Settanta, aveva alcuni principi chiari. Protezione sociale anche a scapito della meritocrazia: qualunque lavoratore, anche i pigri, gli incapaci o addirittura i disonesti, andava difeso. Nella scuola e nell’università «egualitaria» contava solo l’anzianità, mai il merito. Mercati regolamentati, da quello degli affitti (l’equo canone che ingessò il mercato penalizzando chi una casa non la poteva comprare), alle licenze di tassisti, farmacisti e di tante altre professioni ancora ben protette. Un mercato del lavoro fondato su «insider» ipergarantiti e illicenziabili, con giovani e donne esclusi da regole eccessivamente rigide, dove persino il part time era giudicato una cosa «di destra». Pensioni concesse ad alcune categorie privilegiate (a esempio insegnanti dopo pochi anni di lavoro) con il risultato che la dinamica del debito era diventata una bomba a orologeria.

Un capitalismo di Stato fondato sulla complicità fra capitalisti privati e burocrati statali, per «regolare», in realtà per impedire, la competizione e l’ingresso nel mercato di nuove aziende. In alcune aree abbiamo fatto qualche passo avanti, in molte altre no. Il decreto Milleproroghe, a esempio, oggi in discussione, mette fuori legge FlixBus, gli autobus low cost .

È di sinistra tutto cio? A noi pare proprio di no. Dieci anni fa pubblicammo un pamphlet intitolato provocatoriamente Il Liberismo è di Sinistra . Sostenevamo che se obiettivi della sinistra sono l’uguaglianza delle opportunità e la difesa dei deboli e dei meno abbienti, quelle tradizionali politiche «di sinistra» producevano l’effetto opposto. Non a caso molte delle stesse idee oggi sono abbracciate dalla destra populista! Ad esempio l’«uno vale uno» del M5S, cioè il merito non conta.

In quel pamphlet sostenevamo che «la meritocrazia è di sinistra». Certo che lo è. Una scuola e un’università rigorose che premiano chi si impegna e puniscono chi non studia, che promuovono e retribuiscono gli insegnanti in base al merito e non all’anzianità, facilitano la mobilità sociale. Uno studente povero assistito da una borsa di studio (possibile se la smettessimo di regalare l’istruzione universitaria ai ricchi) se può frequentare una buona scuola e una università severa ed efficiente, magari lontana da casa, può farsi avanti. Invece una università sotto costo per tutti, ricchi compresi, senza competizione e appiattita al basso per garantire «uguaglianza» blocca la mobilità sociale. Invece i sindacati («di sinistra»?) si oppongono a valutazioni volte ad accertare la professionalità degli insegnanti.

Sostenevamo che «liberalizzare i mercati è di sinistra». L’amore per la regolamentazione dei mercati è comune alla sinistra tradizionale così come alla destra. Il fallimento della regolamentazione dei mercati finanziari, una delle cause della crisi, è spesso invocato come esempio che ogni deregolamentazione fa male. Certo che ci vogliono delle regole. Ma regole che difendano i più deboli, non gli «insider». È «di sinistra» o «di destra» proteggere i taxisti che da giorni bloccano le nostre città?

Il «capitalismo di Stato non è di sinistra». Cominciamo dalla cosiddetta «politica industriale», cioè un ruolo attivo dello Stato nello scegliere i settori su cui puntare o da proteggere dalla concorrenza internazionale. In genere queste sono considerate politiche di «sinistra». In realtà hanno spesso prodotto disastri industriali. Se poi le aziende protette riescono a autodefinirsi di «interesse nazionale», come Alitalia, allora il gioco è fatto! I contribuenti sono chiamati a pagare e i consumatori a «subire» servizi inadeguati. È di «sinistra» tutto ciò?

Sostenevamo che «riformare il mercato del lavoro è di sinistra». La sinistra tradizionale si è sempre opposta a qualunque riforma rendesse più flessibile la licenziabilità e quindi l’assunzione di nuove leve. Era una politica che proteggeva i lavoratori anziani a scapito dei giovani. Non per nulla in Europa la disoccupazione rimase alta per decenni. Chi ci perdeva? Giovani e disoccupati. Chi ci guadagnava? Lavoratori sindacalizzati anziani. Il Jobs act, cancellando l’articolo 18 e introducendo il contratto unico a tutele crescenti, ha impresso una svolta storica al nostro mercato del lavoro. Ma invece dell’orgoglio di aver fatto finalmente qualcosa «di sinistra», tuonano le critiche di chi pensa che quella sia una legge «di destra».

Ecco invece un problema di mercato del lavoro veramente difficile. Come proteggere i lavoratori relativamente anziani «spiazzati» dalla globalizzazione? Riqualificarli e riassumerli dopo una certa età è difficile. Queste persone vanno protette. Ma non come propone la destra populista (Trump, Marine Le Pen, Giulio Tremonti) che vorrebbero far tornare il mondo indietro di 50 anni, bloccando il commercio internazionale con dazi e tariffe, a spese dei consumatori (quelli poveri soprattutto). Costerà molto proteggere le persone spiazzate. Ma la crescita favorita dal commercio internazionale ce lo consentirà, ammesso che ne sappiamo trarre beneficio. Il protezionismo ammazza la crescita. Senza crescita non proteggiamo nessuno.

Sostenevamo che «ridurre la spesa pubblica è di sinistra». La spesa pubblica è uno dei cavalli di battaglia della «sinistra». La quale sostiene che le spending review sarebbero «di destra». Tutto ciò poteva essere vero prima della Seconda guerra mondiale, quando la spesa pubblica era intorno al 30% del Pil, non oggi che in Europa è intorno alla metà del Pil. Ma aiuta davvero i poveri tutta questa spesa? Si forniscono servizi gratuiti o sotto costo, dalla scuola alla sanità, anche ai ricchi: cioè questi servizi non sono offerti a prezzi che dipendono dal reddito del beneficiario. A che giova tassare molto, con tutte le distorsioni e riduzioni di crescita che ciò comporta, per poi fornire servizi gratuiti anche a chi se li potrebbe permettere a prezzi di mercato se fosse tassato di meno? Quanto di questa metà del Pil aiuta davvero i poveri e i lavoratori spiazzati dalla globalizzazione? Non molto, noi crediamo, soprattutto in Paesi come il nostro pieno di inefficienza e corruzione. Si potrebbe sicuramente ridurre la spesa di qualche punto percentuale di Pil e ridurre le tasse non ai super ricchi ma alla classe media. Non sappiamo se questa politica sia classificabile di «destra» o di «sinistra»: sappiamo che farebbe aumentare la crescita.

Insomma, che cosa sia «di sinistra» o «di destra» nel mondo di oggi è assai meno chiaro di quanto lo fosse qualche decennio fa, prima dello Stato sociale, della regolamentazione, della globalizzazione. È un vero peccato che di tutto si parli nel Pd tranne che di questo: che cosa significhi oggi proteggere i poveri e gli svantaggiati.

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2017/02/22/1/la-sinistra-senza-merito_U43290140562028eVD.shtml

IL LIBERISMO è DI SINISTRA

http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Tempo%20libero%20e%20Cultura/2007/09/radiocorlibri-liberismo.shtml?uuid=a0e0f00e

Un articolo recente sul libro

http://www.ilfoglio.it/politica/2017/02/22/news/il-liberismo-e-di-sinistra-ma-bisogna-capire-se-ce-una-sinistra-che-vuole-esserlo-o-se-preferisce-le-kaste-121871/

Una posizione diversa

http://noisefromamerika.org/articolo/liberismo-non-sinistra

L’euro che non piace più, le ragioni del disincanto

imagescs7huw0oAppena quindicenne, l’euro è rimasto orfano. Nessuno che si assuma le decisioni di politica monetaria, nessuno che emetta debito comune, nessuno che possa intervenire sul cambio. Comincia invece a prendere corpo un movimento di pensiero eterogeneo che professa un suo abbandono. Molti partiti euroscettici, come milioni di persone, sono convinti che si stava meglio prima. Il dubbio scuote ormai tante coscienze e persino in Germania si comincia a non escludere una «Deuxit» clamorosa, come se la moneta unica, raggiunto un obiettivo di inflazione prossimo al 2% e l’occupazione piena, fosse un taxi da cui scendere. Se tentenna Berlino, che è quella che ci ha guadagnato di più dal 2002 ad oggi, il problema della sopravvivenza della valuta stellata c’è. Si possono prendere alcuni indicatori per cercare di capire perché.
Il primo l’ha fornito un’analisi del World Economic Forum. Alla domanda se la globalizzazione avesse migliorato le condizioni di vita, gli esiti del campione sono stati netti e sorprendenti. Solo per cinesi (45%) e indonesiani (23%) le risposte sono state affermative. Negli Usa (65%), in Gran Bretagna (65%), in Germania (59%), in Francia (81%!), persino ad Hong Kong (71%) e negli Emirati Arabi Uniti (60%), una solida maggioranza ha detto di stare peggio, perché si sentono più precari di prima.

Riconducendo questa analisi nel contesto dell’Unione, si può dire che l’euro è nato proprio nell’era della dematerializzazione del lavoro, dove la risposta alla globalizzazione di cui sopra sono i neo nazionalismi. Ma una moneta nazionale in questo contesto planetario potrebbe ben poco.

Il secondo indicatore è calato nella realtà italiana. Il Pil tricolore, a fine 2002, anno di nascita dell’euro, complice la guerra post attacco alle Twin Towers di New York e la recessione conseguente, crebbe dello 0,9%, più o meno quello che è accaduto a fine 2016. Da allora poche le annate sopra l’1%, tra il 2004 e il 2007. Il debito pubblico in termini assoluti dal 2001 è invece aumentato di circa 500 miliardi di euro e dal 108% del Pil si è ora portato oltre il 133%. Peggio ha fatto la disoccupazione: dall’8,8% di fine dicembre 2001 il tasso è arrivato all’11,9% di dicembre 2016. Per fortuna, è quasi un miracolo, l’export ha tenuto.

Non va meglio per la finanza privata. La Borsa non è tornata ai livelli pre-crac Lehman Brothers, un’indagine del Corriere ha mostrato che gli investimenti bancari, salvo un’eccezione, sono andati molto male con il cambio del segno monetario, mentre ci ha guadagnato chi ha messo i soldi su oro, Ctz e aziende leader nel loro settore. In generale però, se un’impresa è finita nelle mire di una europea è passata di mano senza colpo ferire, in virtù della libera circolazione dei capitali che quasi mai ha coinciso con la difesa della ricchezza nazionale.
Ma deve far riflettere anche il banco della spesa, perché gli italiani giudicano l’Europa col portafogli e non col cuore. Confrontando i prezzi dei maggiori prodotti di largo consumo nel 2002 con quelli del 2016, tolta l’inflazione con i coefficienti Istat, c’è ben poco da gioire. Un chilo di spaghetti ha subìto un aumento del 47%, analoga quantità di riso si è impennata del 58%, sei uova costano il 47% in più, carne di vitello (+73%), sogliola al chilo (+69%), passata di pomodoro (+55%), persino le patate (+80%), non sono stati da meno. I motivi di questa perdita di potere d’acquisto si possono rinvenire in tre elementi: cambio sfavorevole (1936,27 lire per un euro), arrotondamento prima del changeover, controlli elusi durante il periodo di doppia circolazione e conseguente speculazione. Si pensi al raddoppio degli affitti che molti italiani hanno dovuto subire.
I fatti sommariamente elencati, conducono alcuni a sostenere che per l’Italia sia meglio uscire dall’euro per riacquisire la sovranità monetaria, la penetrazione sui mercati e il potere d’acquisto perduto. Tornare alla lira non è però proponibile, se allo stesso tempo non lo fanno anche Francia e Germania. Che fare allora con questa valuta Frankenstein, dal corpo di metallo ma senza anima politica?
Alcuni economisti propongono una riedizione dello Sme, con bande di oscillazione per ciascuna moneta nazionale rispetto all’euro che resterebbe valuta comune di riferimento. Un’alternativa più coraggiosa sarebbe quella di creare un Tesoro unico che emetta debito che possa essere comprato direttamente dalla Banca centrale europea. Il dibattito è solo all’inizio e va affrontato senza snobbare chi si sente impoverito.

ROBERTO SOMMELLA

Corriere della Sera, 21 febbraio 2017

 

http://www.corriere.it/digital-edition/CORRIEREFC_NAZIONALE_WEB/2017/02/21/28/leuro-che-non-piace-piu-le-ragioni-del-disincanto_U4329089069195UWH.shtml

 

Nella Grecia ostaggio della crisi fra ospedali al collasso e miseria

grecia71Quanto guadagna un chirurgo con due lauree e 34 anni oggi ad Atene? «980 euro di stipendio fisso, più gli straordinari. Che però vengono pagati solo fino ad un massimo di 600 euro, anche se dobbiamo lavorare molto di più. Da quando la crisi è iniziata, gli stipendi negli ospedali pubblici sono stati tagliati del 42 per cento». Se questo è il posto dove tutto passa per il denaro, allora forse è giusto iniziare da qui. Dal secondo ospedale più importante della città, «Attikon» si chiama. «Ho fatto pratica a Patrasso, ma da tre anni lavoro qui in chirurgia generale», dice il dottor Giorgos Sideris. «Certe volte non abbiamo il filo adatto per le suture, altre volte manca la rete per proteggere l’ernia dopo l’operazione. Mancano gli strumenti per la laparoscopia. Non ci sono fondi per acquistare la Tac. Siamo completamente sprovvisti di vaccino antitetanico. Delle sedici sale operatorie, ne funzionano otto. Abbiamo 730 posti letto ma altri cento pazienti sono ricoverati, proprio in questo momento, sulle barelle. Vi invito a controllare con i vostri occhi». È troppo facile chiamarla tragedia greca, però è di questo che si tratta. Perché sono tutte vere le colpe che hanno prodotto il più grande debito pubblico d’Europa, così come le ragioni di chi adesso non sopporta più l’austerità. «In questi sette anni, da quando siamo sotto il controllo finanziario dell’Unione europea, non ho visto un solo miglioramento delle mie condizioni di vita», dice il dottor Sideris prima di iniziare il turno. Lo attendono sei operazioni chirurgiche. Non ha mai fatto una vacanza all’estero, ha una Toyota di seconda mano e un piccolo alloggio in affitto non lontano dall’ospedale. La Grecia è di nuovo in bilico. Oggi i ministri europei dell’Economia riuniti a Bruxelles cercano l’accordo per finanziare un’altra tranche di aiuti, dopo gli 85 miliardi stanziati ad agosto del 2015. Per partecipare all’esborso, il Fondo monetario internazionale chiede più sacrifici al governo greco. Nuovi tagli alle pensioni e più tasse. Perché il Pil nell’ultimo trimestre è andato peggio delle previsioni, da +0,9% è sceso a +0,3%. E il programma di rientro del debito non sta andando bene. Ma il premier Alexis Tsipras ha dichiarato che non è disposto a chiedere ulteriori sacrifici al suo Paese. Da qui, le ragioni delle trattative in corso. Di questa tragedia si conosce bene l’inizio, e non va mai dimenticato. Anni di scelte politiche sciagurate, posti pubblici regalati a pioggia, armatori tenuti al riparo da ogni legge, l’enorme evasione fiscale. Anni di conti falsificati, all’epoca dell’allora primo ministro Konstatinos Karamanlis. La Grecia ha ricevuto il più grande prestito internazionale della Storia: in tutto 110 miliardi di euro. Lo ha ricevuto anche da Paesi dell’Unione più poveri. E forse, dunque, è vero quello che l’altro giorno diceva un ministro sloveno: «La Grecia dovrebbe mostrare solidarietà, oltre che chiederla». Ma il fatto è che la cura non sta guarendo il paziente. E questa constatazione riguarda il futuro, e cioè forse la fine della tragedia. «Dopo avere preso la laurea in Fisica, non mi sono iscritto alla facoltà di Medicina pensando di fare i soldi», dice il dottor Sideris. «Ma quello che vorrei è poter vivere dignitosamente, con uno sguardo più sereno verso il futuro. Invece qui manca tutto. Ogni giorno in ospedale siamo subissati dallo stress, perché non ci sono nemmeno i soldi per garantire un’assistenza adeguata. Il pronto soccorso scoppia di gente. Le liste per farsi asportare un tumore benigno superano l’anno d’attesa. Non si può credere a questo genere di salvataggio». Cosa sta succedendo ad Atene? Per incominciare, 2,8 miliardi di euro hanno lasciato i conti bancari nei primi due mesi del 2017, segno di una nuova ondata di preoccupazione. Le banche sono in sofferenza, denunciano un picco di prestiti non rimborsati. Come nei giorni del referendum dell’estate del 2015, quando proprio qui dalla Grecia arrivò il primo «No» all’Europa. Davanti alla mensa sociale di via Sofokleous, la coda è aumentata rispetto ad allora. Oggi distribuiscono riso con il pomodoro e una pagnottella nel cellophane. Sono anziani greci a mangiare seduti sul marciapiede, molte donne sole assieme a giovani migranti. Nel 2016 le vendite nei supermercati sono calate dell’8,9%, mentre sono in aumento il consumo di eroina e quello di psicofarmaci. Secondo il giornale Kathimerini, anche il maggior numero di divorzi, in un Paese molto tradizionalista come questo, è significativo: un terzo dei matrimoni è finito durante gli anni della recessione. Ci sono state le proteste degli insegnanti, del personale ospedaliero e quelle dei vigili del fuoco. Mercoledì i contadini sono tornati a manifestare contro gli ennesimi tagli, lasciando dei cavoli davanti al Parlamento in piazza Syntagma. Dopo le riforme del 2015, la spesa per le pensioni in Grecia è scesa dall’11 al 9% del Pil, ma la media nell’eurozona è di 2,5%. È altrettanto vero, però, come ha ricordato il ministro del Lavoro Effie Achttsioglou in una lettera pubblicata sul Financial Times, che il reddito medio di un greco sopra i 65 anni è di 9 mila euro. E il 43 per cento dei pensionati riceve meno di 660 euro al mese. «Paghiamo le tasse, paghiamo il carburante e non ci resta nulla per vivere», dicevano i contadini in piazza. Vivere, alla fine. Non tutto è di segno negativo. C’è stata una lieve ripresa dell’occupazione che la Commissione europea prevede pari a un 2,2% nel 2017. Inoltre, l’ultima estate, per il turismo è stata straordinariamente felice. Ma non c’è nulla, qui ad Atene, che assomigli davvero a una rinascita, o almeno a una svolta. «La crisi sta marcendo», ha scritto nel suo ultimo editoriale il direttore di Kathimerini Nikos Kostandaras. La Grecia era e rimane «un caso speciale», dove continuano a sommarsi errori. Quanto assomiglia all’Italia? I migranti sono accampati ovunque, anche nei vecchi impianti olimpici e nell’aeroporto dismesso dove un tempo atterravano Maria Callas e Aristotele Onassis. Sono 65 mila i profughi rimasti intrappolati dopo la chiusura della rotta balcanica, migranti che l’Europa non ha voluto distribuire per quote. La luce del sole ad Atene resta nitida e bellissima. Un tragitto di un quarto d’ora in taxi costa 6 euro. Nei locali risuonano bouzouki e malinconie. E per le strade la risposta più frequente a tutte le paure, ancora oggi, è questa: «Se l’Europa si dividerà, è perché non è mai esistita».

Niccolò Zancan

La Stampa

20 febbraio 2017

http://www.lastampa.it/2017/02/20/esteri/nella-grecia-ostaggio-della-crisi-fra-ospedali-al-collasso-e-miseria-MyExPRAWlBrVtkvNT9QWSM/pagina.html

 

 

Parlamento di voltagabbana. È record di cambi di casacca

voltarenScissioni, separazioni litigiose, divorzi consensuali e ricongiungimenti amari. Nel calderone del trasformismo parlamentare per ricordare numeri simili a oggi, è necessario tornare indietro di vent’anni, al 1996, quando la vittoria dell’Ulivo e la successione di quattro governi diversi (Prodi, due volte D’Alema e Amato) inaugurava la stagione dei cosiddetti «voltagabbana». Ora quel record finora rimasto intatto, 400 cambi di gruppi in cinque anni, sta per essere frantumato dall’era degli esecutivi Letta, Renzi, Gentiloni. Dall’inizio dell’ultima legislatura, la XVII, se ne contano già 396. Di questo passo, dovesse arrivare al suo termine naturale, si sfonderebbe il muro delle 500 giravolte, come calcola Openpolis: la media mensile del valzer di casacche è cresciuta del 50% rispetto alla legislatura precedente con Berlusconi al governo prima dell’arrivo di Monti.
Il ritmo degli arrivi e delle partenze, dei biglietti di sola andata verso la maggioranza o di ritorno all’opposizione, è raddoppiato e fotografa una frantumazione che si misura sul sostegno alla maggioranza renziana. Il risultato è un Parlamento che si rispecchia in una miriade di sigle che poco hanno a che fare con le liste elettorali votate dai cittadini alle urne. Openpolis ha aggiornato i calcoli: alla Camera su 11 gruppi parlamentari, solo quattro sono espressione delle liste (Pd, M5s, Lega e Fratelli d’Italia), mentre al Senato sui 10 solo 3 (Pd, M5s e Lega). I 396 cambi di casacca registrati finora, con relativi spostamenti di denaro (deputati e senatori che cambiano portano con sé rispettivamente un tesoretto annuo di 49.200 euro e di 59.200) sono avvenuti in soli 47 mesi, con una media di 8,4 cambi al mese. Il 23,97% dei deputati e il 36,56% dei senatori ha compiuto almeno un passaggio da un gruppo all’altro. Sul totale degli eletti, il 28,21% ha fatto almeno un salto in un altra forza politica (la percentuale era al 18,86 nella scorsa legislatura).
Quando nel dicembre 2010 i deputati Razzi e Scilipoti lasciarono i loro gruppi – Pd e Italia dei Valori – per votare la fiducia al governo Berlusconi, il centrosinistra li bollò come «traditori». Ma le osmosi tra gli schieramenti, oggetto allora di polemiche feroci, sono diventate ordinaria amministrazione con gli esecutivi Letta e Renzi, dove hanno raggiunto livelli ben superiori. Al netto del picco registrato sotto Letta, influenzato dalla scissione di Forza Italia e Ncd (che ha fatto schizzare al 66,82% i cambi alla Camera e all’80,57% di quelli al Senato tra i gruppi di centrodestra), si è infatti passati da una media di cinque cambi al mese con il governo Berlusconi a otto con Renzi. 
Nemmeno la forza che doveva aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno si è rivelata poi così compatta. Il M5S registra il 16,13% dei cambi alla Camera e il 15,43% al Senato. Ma il trasformismo grillino non ha porte girevoli e viaggia in una sola direzione: l’uscita. Così in tre anni e mezzo i cinque stelle hanno visto 38 portavoce andarsene, lasciando la forza di Grillo con il 23% di parlamentari in meno, confluiti un po’ a destra, un po’ a sinistra, un po’ al centro. Ci sono poi i «recidivi», i più tormentati a cui un solo addio non basta. In tutto sono sessanta i politici che hanno cambiato gruppo in almeno due legislature. Il senatore Luigi Compagna ha il primato: per sei volte è, entrato e uscito dai gruppi, passando per il Misto, Ap e Gal ha trovato ora la pace in Conservatori e Riformisti. E dire che era stato eletto nel 2013 con il Pdl. Schieramento di cui non ha mai fatto parte in Aula.

LODOVICA BULIAN

il Giornale, 20 febbraio 2017

http://www.ilgiornale.it/news/politica/parlamento-voltagabbana-record-cambi-casacca-1366195.html

 

IMBALLARE UN UOVO IN EUROPA

imagesmf4ts9imPersino oggi, con un’Unione Europea a rischio di disgregazione, non si è placata la «furia regolamentatrice» con cui i preposti organi della Ue (Parlamento europeo incluso) da sempre si occupano di «perfezionare» — in realtà, di ingabbiare — il mercato unico europeo, continuando ad accumulare, dissennatamente, norme su norme: si tratti delle recenti disposizioni che riguardano l’imballaggio delle uova commerciabili all’interno della Ue oppure dei regolamenti — giustamente celebri, in quanto oggetti di feroci ironie — sulle dimensioni obbligatorie di certi prodotti agricoli. È falso che quella furia regolamentatrice non abbia alcun rapporto con la crisi europea. Non si tratta di folklore. Non c’è soltanto un’idea malata su cosa sia un mercato, l’incapacità di vedere la differenza fra un libero mercato (retto da poche norme generali) e un mercato nonlibero, «amministrato», di stampo corporativo. Non c’è soltanto l’abuso (una cospirazione ai danni dei consumatori, avrebbe detto Adam Smith) rappresentato dalla sorda lotta che avviene dietro le quinte — nei comitati in cui si sviluppa il lavoro quotidiano dell’Unione — fra gruppi di produttori in competizione fra loro, tesi a scaricare sui concorrenti i maggiori costi che derivano dalla necessità di adeguarsi alle norme europee (costi che, ovviamente, finiscono poi per gravare sui consumatori). C’è anche un’idea sbagliata sul rapporto fra Unione e democrazia. Talché, qualunque intrusione nella vita degli europei diventa lecita, dotata del necessario pedigree democratico, se porta il timbro del Parlamento europeo.

È in omaggio a questa idea che il Trattato di Lisbona ne ampliò le competenze. Peccato che il Parlamento europeo resti un’istituzione assai carente (per usare un eufemismo) sotto il profilo democratico. Forse i parlamentari europei credono sinceramente di avere avuto un «mandato» da parte degli elettori per impicciarsi, insieme al Consiglio e alla Commissione, delle loro vite. Formalmente è così ma nella sostanza no. La schiacciante maggioranza di coloro che li hanno votati lo ha fatto senza neppure sapere che cosa, una volta eletti, sarebbero andati a fare. Le scelte di voto dei pochi elettori che partecipano alle elezioni europee sono sempre motivate dalla volontà di manifestare ostilità oppure appoggio per il governo nazionale in carica nel Paese di ciascuno di loro. Il rapporto elettori-eletti del Parlamento europeo è viziato da questa circostanza. Da sola questa è un’ottima ragione per consentire con chi (come Antonio Armellini e Gerardo Mombelli in Né Centauro né Chimera, un recente, ottimo libro sull’Unione) pensa che sia giusto affiancare all’attuale Camera dei deputati europei, una seconda Camera che comprenda rappresentanti, essi stessi parlamentari, designati dai Parlamenti nazionali. Sarebbe una mossa condivisa tanto dai federalisti (come Armellini e Mombelli) che immaginano due Europe a diversi livelli di integrazione, quanto da coloro che auspicano, per l’Unione nel suo complesso, un futuro confederale. Non sarebbe, inoltre, solo un modo per conferire più equilibrio all’attività del Parlamento europeo. Una seconda Camera, non elettiva, aumenterebbe, paradossalmente, il tassodi rappresentatività di quel Parlamento: perché i Parlamenti nazionali, quelli sì, sono in regola (nella sostanza, non solo formalmente) sotto il profilo della rappresentanza democratica.

Per decenni la vulgata europea si è nutrita di idee poco verosimili. La principale era che l’integrazione europea avrebbe dovuto ripercorrere, e riprodurre, i processi mediante i quali, nei secoli passati, erano sorti dapprima gli Stati e le nazioni europee e poi si erano affermate le democrazie. A parte il fatto che i percorsi di formazione di Stati, nazioni e democrazie in Europa furono molteplici e assai diversi fra loro, quella vulgata mancava di fantasia. L’idea che quei processi e percorsi fossero replicabili su scala europea era inverosimile. Non solo non sorgerà alcuno Stato europeo, non solo la «nazione europea» non c’è e probabilmente non ci sarà in futuro, ma anche il progetto di una democrazia continentale appare irrealizzabile. Ideale da sempre accarezzato da ristrette élite cosmopolite (o sedicenti tali), non può essere fatto proprio dal grosso degli elettorati. Non è lecito equivocare sul sostegno che (per fortuna), e nonostante la crescita dei movimenti contrari all’Unione, la maggioranza degli europei continua a manifestare per l’Europa. Quel sostegno non va scambiato per una sorta di via libera a una integrazione politica che implichi un drastico depotenziamento delle democrazie nazionali a favore di una (immaginaria) democrazia sovranazionale. Nessuno, in realtà, vuole essere governato da persone che parlano una lingua che egli non conosce, per capire le quali ha bisogno dell’interprete.

Se non si vuole che i sovranisti vincano, sfasciando tutto, lasciandoci con tanti staterelli impotenti, e pronti, come nei secoli passati, ad azzuffarsi, staterelli che sarebbero in balia dei grandi Stati che oggi dominano il mondo, occorre cambiare registro, sbarazzarsi di diverse idee ricevute. Non abbiamo più bisogno di un’Europa impicciona, malata di dirigismo, né di un’Europa che scimmiotta la democrazia rappresentativa. Abbiamo invece bisogno di ridefinire il perimetro e i confini di ciò che spetta all’Europa e di ciò che spetta alle democrazie nazionali, dobbiamo mettere paletti, distinguere fra le poche — ma essenziali — cose di cui deve occuparsi l’Unione, e le tante da lasciare all’esclusiva competenza delle comunità locali e nazionali.

Angelo Panebianco

Corriere della Sera 19 febbraio 2017

http://www.corriere.it/cultura/17_febbraio_19/imballare-uovo-europa-ee6f3d8e-f606-11e6-a891-35892eecc6d0.shtml

La Cassazione: “Rubare è sempre reato, anche quando si ha fame”.

fufufu“Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”, cantava Fabrizio De André. Invece per la corte di cassazione rubare è sempre rubare, anche se spinti dalla fame e dalla povertà visto che “alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale o per esempio la Caritas”.

Con questa motivazione gli ermellini hanno respinto il ricorso di una donna straniera, senza permesso di soggiorno e senza dimora, Jonela S., 36 anni, che era stata condannata dalla corte d’appello di Torino a due mesi di carcere e 400 euro di multa per tentato furto. Il 30 settembre 2014 aveva preso sei pezzi di parmigiano all’Auchan di corso Romania, valore 82 euro. La donna, arrivata alla cassa, aveva messo sul nastro una bottiglia di acqua, una birra e un succo di frutta ma gli addetti alla vigilanza l’avevano vista davanti al banco frigo mettere i pezzi di formaggio in una borsa, non prima di aver tolto le placche antitaccheggio. E lei aveva ammesso “di avere rubato il formaggio – si legge nella sentenza – per poterlo rivendere e guadagnare denaro per affrontare le esigenze di vita”.

Per questo l’avvocato aveva provato a sostenere nei tre gradi di giudizio che la situazione di indigenza potesse rientrare nella condizione prevista nel codice penale all’articolo 54, dove si afferma che “non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità”.

Tuttavia la corte di cassazione ha respinto questa impostazione, come già avevano fatto i giudici del tribunale di Torino e della corte d’appello, per quanto una precedente sentenza sempre della Cassazione di un anno fa avesse invece assolto un chochard genovese per aver rubato due porzioni di formaggio

e una confezione di wurstel del valore complessivo di 4 euro spinto da una fame impellente. Anche in quel caso, scrive la Suprema corte andando in direzione opposta a quella intrapresa dai colleghi, l’uomo “avrebbe potuto soddisfare i propri bisogni alimentari immediati rivolgendosi ad esempio alla Caritas”. E comunque, si precisa, “non sfugge la differenza con questo caso”. Sarà anche per i precedenti della donna, che era stata denunciata 13 volte per furto.

Federica Cravero

La repubblica, 16 febbraio 2017

http://torino.repubblica.it/cronaca/2017/02/16/news/la_cassazione_rubare_e_sempre_reato_anche_quando_si_ha_fame_il_caso_a_torino-158441900/?ref=HREC1-15