Dalle ore di scuola a Moravia e Pascal. Il segreto della noia

«Ora di lezione: Drin drin drin/ Disciplina!/ Concentrazione!/ L’insegnante!/ Ancora 35 minuti/ Ancora 34 minuti/ Ancora 32 minuti (…) / Numeri, date, concetti!/ Incomprensibile/ Ancora 20 minuti/ Ancora 19 minuti/ (…) Il tempo diventa come una gomma da masticare/ Ancora 3 minuti/ Ancora 2 minuti. Ancora 1 minuto/ Aahh!/ La prossima ora ti attende!». La poesia di un liceale tedesco, riportata da un sociologo, rende bene il tempo scolastico: non passa mai.
Nonostante l’impegno degli insegnanti, a scuola ci siamo annoiati tutti. Per fortuna adesso c’è il cellulare con cui affrontare quella che Heidegger chiama la “noia occasionale”, che colpisce quando il tempo degli orologi e il tempo vissuto non coincidono, ovvero spessissimo. La ministra dell’Istruzione, che viene da una vita di estenuanti riunioni sindacali, deve conoscere bene il potere distruttore della noia, altrimenti non avrebbe proposto di usare gli smartphone in classe per vivacizzare le lezioni. Dopo questa riforma probabilmente non ci saranno più poesie come quella dello studente. Tutti chini sullo schermo a inseguire il mondo là fuori: amici, genitori, siti, canzoni, youtube, tutto sarà a portata di dito, se non lo è già, dato che nelle classi il cellulare c’è.
La noia s’aggiorna? Heidegger, che di questa tonalità affettiva se ne intendeva, tanto da farne uno dei fondamenti della sua filosofia alla pari dell’angoscia, aveva in serbo due altre nozioni: la noia non-occasionale e la noia profonda. La prima è quella che ci colpisce quando, dopo una cena con amici, ci sentiamo di aver perso tempo: una sensazione di non-so-cosa sgorga dal nostro intimo. La seconda, più radicale, «va e viene nelle profondità dell’esserci, come una nebbia silenziosa, accomuna tutte le cose, tutti gli uomini, e con loro noi stessi in una strana indifferenza».
Questa è la noia che ci rivelerebbe a noi stessi e ci porrebbe, a detta di Heidegger, la domanda fondamentale: perché c’è qualcosa e non il nulla? Provare la noia radicale ci trasforma in filosofi? Non è lontano dal vero, se Wittgenstein nel Tractatus ha detto che un problema filosofico ha questa forma: «Non riesco ad orientarmi». Da cui si capisce che la noia, come nel caso della poesiola del liceale, apre al pensiero, alla riflessione, ovvero alla filosofia. Però questo non accade sempre. In effetti non è facile muoversi dentro quella “nebbia silenziosa”, come sa bene Dino, il protagonista della Noia (1960) di Alberto Moravia, che all’inizio del romanzo parla anche lui della noia come di una nebbia, e pure Unamuno, che ha intitolato un suo libro narrativo Nebbia (1914), dove racconta il “male di vivere”. Cos’è esattamente la noia? Insoddisfazione, senso di vuoto, indifferenza, disinteresse, tedio, pigrizia, sono alcuni degli stati d’animo prodotti dalla noia. Il tempo non passa mai, e si prova un senso d’insensatezza, un dispiacere incomprensibile. A lungo non si è distinta la noia dalla malinconia e dalla depressione; gli psichiatri hanno identificato la noia con molto ritardo rispetto ad angoscia e ansia, mentre era già chiaro ai Padri della Chiesa che la noia era uno stato patologico, per loro provocato da un demone: il Demone meridiano. Il monaco che nella sua cella invece di leggere le sacre scritture, pregare o meditare, si distrae e infine mette il libro sotto il capo e s’addormenta, è preda dell’accidia, che è l’antenato della noia. “Accidia” sta per “senza cura”: indolenza, ignavia, pigrizia, prosciugamento di ogni forza spirituale. “Noia” viene, come il francese ennui, dal provenzale enoja e prima dal latino inodiare, cioè in odio habere. La noia è «ciò che tiene in sospeso e tuttavia lascia vuoti».
Come gli studenti sanno bene è il tempo quello che non scorre mai della noia. Non è colpa degli insegnanti; ci mancherebbe altro! Il vero problema è il tempo. Il tempo che passa, insieme con il senso stesso del nostro esistere, domande imprescindibili: chi siamo? cosa ci facciamo qui? Pascal è stato il primo che ha capito come stavano le cose, collegando l’accidia dei monaci alla noia dell’uomo moderno. La noia è un sentimento ontologico, riguarda cioè la natura stessa dell’uomo, il suo “essere”, o invece è un sentimento legato alla storia sociale? Entrambe le cose, si direbbe. Goethe ha detto una volta che ciò che distingue gli uomini dalle scimmie è proprio la noia. Ma è anche vero che la noia è diventata un problema sociale con la nascita dello Stato assolutistico francese, quando la nobiltà fu privata dei suoi compiti politici e giuridici per diventare una classe che s’annoiava. La noia sorge là dove c’è una condizione economica favorevole, legata al privilegio economico, dicono i sociologi. Le classi povere, i proletari, non s’annoiano; si disperano piuttosto. La noia come patologia del benessere? Probabile.
C’è poi un altro fattore che è legato allo sviluppo delle nostre società postmoderne: la fine del lavoro manuale tradizionale, la crescita del tempo libero, l’imporsi della “società delle emozioni” con la ricerca di sensazioni sempre più forti. La noia tallona da vicino l’uomo contemporaneo insieme all’ansia, alla depressione e all’angoscia, sue sorelle. «Sono annoiato/ Sono annoiato/ Sono il presidente degli annoiati/ Sono stufo di tutti i miei divertimenti/ Sono stufo di tutte le bevute/ Sono stufo di tutti i cadaveri», canta Iggy Pop in I’m bored. L’emblema contemporaneo della noia è Andy Warhol. Nei suoi diari, uno dei libri più noiosi del mondo, compare sovente la parola boring. «Mi piacciono le cose noiose», ha detto una volta Warhol. E tuttavia proprio con la noia è riuscito a fare arte, un’arte adeguata ai nostri tempi: estetica, ripetitiva, banale e insieme sorprendente.
Perché c’è un’altra noia ancora, la noia creativa. Se non ci si annoia da ragazzi, non si diventa artisti o scrittori? Probabile. Questa è un’altra storia ancora. Leopardi ha scritto: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani».

MARCO BELPOLITI

La Repubblica, 26 settembre 2017

Sanità: 22,5 miliardi di sprechi

Doctors income

Prestazioni inutili, frodi, costi standard, burocrazia: su ogni 10 euro spesi per la sanità, se ne potrebbero risparmiare 2. Un totale di 22 miliardi e mezzo su un costo che nel 2016 è stato di 112,5 miliardi.

Nella sanità pubblica ogni 10 euro spesi se ne potrebbero risparmiare 2, per un totale di 22 miliardi e mezzo su una spesa annua 2016 che è stata di 112,5 miliardi. Si potrebbe intervenire su sei capitoli, dal taglio delle prestazioni inutili alla lotta alle frodi, dall’estensione dei costi standard negli acquisti a una organizzazione efficiente della prevenzione. La contabilità degli sprechi è contenuta nel 2° Rapporto sulla sostenibilità del servizio sanitario nazionale, presentato qualche giorno fa al Senato, alla presenza della ministra Beatrice Lorenzin e con la partecipazione, tra gli altri, di Agnès Couffinhal, senior economist dell’Ocse, che ha confermato le stime del rapporto della Fondazione Gimbe, invitando ad «agire senza indugi per tagliare gli sprechi con precisione… chirurgica». Un consiglio utile anche per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Basti pensare che se davvero si risparmiassero 22,5 miliardi, la prossima manovra sarebbe già fatta, a partire dai 15,4 miliardi necessari per disinnescare l’aumento dell’Iva.

 

Lo Stato in ritirata

Nel nostro Paese, va subito detto, non si spende troppo. «A seguito del costante definanziamento – cioè del contenimento della spesa pubblica, si legge nel Rapporto – la spesa sanitaria in Italia continua inesorabilmente a perdere terreno». A partire dal 2013 i governi hanno programmato un contenimento della spesa per la sanità dal 7,1% del Pil al 6,4% previsto per il 2020 dall’ultimo Def (Documento di economia e finanza). «Guardando alla spesa pubblica pro-capite emerge in tutta la sua criticità il definanziamento pubblico: siamo sotto la media Ocse (2.469 dollari contro 2.820) e in Europa 14 Paesi investono più dell’Italia in sanità».

Contemporaneamente è aumentata la spesa privata. «Un quadro inquietante emerge dal confronto con i paesi del G7, dove l’Italia è fanalino di coda per spesa totale e per spesa pubblica, ma seconda per spesa out-of-pocket, testimonianza inequivocabile che la politica si è progressiva- mente sbarazzata di una consistente quota di spesa pubblica, scaricandola sui cittadini senza preoccuparsi di rinforzare in alcun modo la spesa privata intermediata» (fondi sanitari integrativi). Su circa 35 miliardi di spesa privata all’anno, infatti, oltre 30 sono sostenuti direttamente dalle famiglie, «con una spesa procapite annua di oltre 500 euro» e solo 4,5 intermediati da fondi e assicurazioni. Nessuna sorpresa, quindi, se i cittadini che hanno rinviato o rinunciato alle cure per difficoltà economiche siano aumentati da 9 milioni nel 2012 a 11 nel 2016.

 

Il paradosso dei Lea

I nuovi Lea, livelli essenziali di assistenza, da poco approvati dal governo, «concretizzano secondo gli esperti della Fondazione Gimbe – situazioni paradossali, dove con il denaro pubblico vengono al tempo stesso rimborsate prestazioni futili mentre altre indispensabili non vengono garantite», come per esempio «la telemedicina per il monitoraggio domiciliare dei pazienti con scompenso cardiaco, nonostante le robuste evidenze a supporto». Inoltre, i Lea rimandano a « ulteriori atti legislativi dalle tempistiche in parte ignote e imprevedibili, in parte note ma difficilmente applicabili in tutte le Regioni secondo le scadenze. Di conseguenza, l’accessibilità alla maggior parte delle prestazioni dei nuovi Lea è ancora un lontano miraggio».

 

Sei categorie di spreco

Nonostante ciò, 22,5 miliardi all’anno si potrebbero risparmiare. E magari spendere meglio, perché non solo si spende poco per la sanità, ma anche male. Il Rapporto individua 6 categorie di spreco: 1) «Sovrautilizzo» (6,75 miliardi di euro di spreco): farmaci, esami, ricoveri e interventi inutili. 2) «Frodi e abusi» (4,95 miliardi): corruzione diffusa nel sistema delle forniture e delle convenzioni coi privati; uso improprio dei fondi per la ricerca; appalti truccati; varianti di prezzo in corso d’opera; furto di farmici e altre forniture durante la distribuzione e lo stoccaggio; cattiva gestione del patrimonio immobiliare; false esenzioni dal ticket; utilizzo di strutture pubbliche a fini privati; schede di dimissione ospedaliera falsificate per gonfiare i rimborsi; dirottamento dei pazienti verso strutture private. 3) «Costi eccessivi» (2,25 miliardi) perché in molti casi non vengono applicati i costi standard, dai farmaci alle protesi, dalle apparecchiature alle pulizie. 4) «Sotto utilizzo» (3,38 miliardi), cioè mancata prevenzione con esami, cure e interventi che eviterebbero successive spese. 5) «Complessità amministrative» (2,48 miliardi): eccesso di burocrazia; gestione non informatizzata delle sale operatorie. 6) «Inadeguato coordinamento» (2,7 miliardi): duplicazioni nelle prestazioni; lunghe liste d’attesa; mancata presa in carico post-dimissione.

Enrico Marro

Corriere della Sera, 12 giugno 2017

 

http://www.corriere.it/economia/17_giugno_11/sanita225-miliardi-sprechi-20b39ec0-4ed1-11e7-b3da-d63487cd15a9.shtml

I vizi che piacciono al fisco

L’Italia è un Repubblica – fiscalmente parlando – fondata sui vizi. Aggrappata a Bacco, tabacco e Venere (sotto forma di Dea bendata) per far quadrare i conti dello Stato. Le tasse su sigarette, alcol, slot machine e gratta e vinci vari hanno garantito nel 2016 un gettito di quasi 25 miliardi, più o meno quanto rendono le accise sui carburanti. Nei primi tre mesi del 2017 – grazie al balzo (+15.9%) delle entrate da “apparecchi e congegni di gioco”, alias le slot machine – è arrivato il sorpasso: benzina e diesel hanno portato 5 miliardi nelle casse del Tesoro, i dazi sui vizi ne hanno raccolti 6, quasi il 7% delle imposte totali pagate nel periodo (95) miliardi. Il trend, oltretutto, è destinato ad accentuarsi: la manovra allo studio del Parlamento in questi giorni prevede un altro giro di vite fiscale -125 milioni l’anno a regime – sulle sigarette e un riordino delle aliquote sull’azzardo che porterà sì (ed era ora) a una prima riduzione delle slot ma garantirà comunque, grazie a uno strategico ritocco alle aliquote su vincite e giochi, un aumento degli incassi dello Stato. Non solo. Nel mirino dell’erario, ad abundantiam, è entrato ora un altro peccatuccio nazionale: le bevande gassate. La prima bozza della manovra prevedeva – nel supremo interesse dei girovita italiani – un giro di vite sulle bibite zuccherate. Incasso previsto: 200 milioni. Un aiutino (per ora accantonato) decisivo per centrare gli obiettivi di finanza pubblica imposti a Roma da Bruxelles.
Al Bancomat dei vizi tricolori, lo sportello più redditizio è quello del gioco. Nel 1985, l’era in cui il sogno nazionale era il 13 al Totocalcio, il fisco incassava 790 milioni. Ora i tempi sono cambiati, la schedina è archeologia del settore e dettano legge slot e poker online. Il gettito però è decollato, arrivando attorno a quota 12 miliardi l’anno (32 milioni ogni 24 ore) grazie a una moltiplicazione geometrica di offerte e a una giungla di aliquote in cui l’unico che fa sempre Jackpot è lo Stato. Il Tesoro incassa 53,6 centesimi ogni euro speso al superenalotto, sta alzando in queste settimane dal 17% al 19,5% – il quarto ritocco all’insù in pochi anni – il prelievo unico sulle slot, si mette in tasca più di un euro ogni 5 euro di Gratta & Vinci venduti. E la pressione fiscale in continua crescita – più che scoraggiare l’azzardo – sembra invece incentivarlo.
Il vizio più costoso per il consumatore invece (anche a voler parlare solo di portafoglio e non di salute) è quello del tabacco. Il costo industriale di un pacchetto di sigarette, dicono fonti di settore, è attorno ai 15 centesimi. Al dettaglio però costano circa 5 euro. Dove va la differenza di 4,85 euro? Ben 2,73 euro sono accise, 90 centesimi è l’Iva. Il 10% va al venditore, il 13% – circa 80 centesimi – al produttore. Come dire che lo Stato si mette in tasca il 77% del prezzo finale, pari in un anno a circa 11 miliardi. Un carico fiscale superiore persino a quello astronomico che grava sui carburanti, dove le accise destinate ancora a finanziare il terremoto del Belice (1968) e la Guerra d’Etiopia (1935) pesano oggi 1 euro sugli 1,52 del prezzo della verde alla pompa. Calcolatore alla mano, per ogni euro che mettiamo nel serbatoio 66 centesimi vanno direttamente all’erario. Se si calcola anche l’Iva sui pacchetti di sigarette, il tabagismo nazionale porta nelle casse dell’erario oltre 13 miliardi l’anno.
L’alcol è invece, in campo fiscale, la cenerentola (e in apparenza il meno costoso) dei vizi. La lobby del vino con un sapiente lavoro di moral suasion parlamentare ha sempre tenuto sotto controllo le accise, pur aumentate almeno quattro volte negli ultimi sette anni. E le tasse sugli spiriti portano al Tesoro poco più di 600 milioni l’anno. Briciole. Che sommate però alla montagna d’oro spremuta a sigarette e giochi hanno consentito all’Italia e al suo bilancio di ammortizzare – finora senza contraccolpi – l’addio all’Imu. Il Tesoro ha incassato nel 2015 grazie all’ultima stangata sulla prima casa 15 miliardi, 10 in meno di quanto ne garantiscono oggi bacco, tabacco e dea bendata. Un tris d’assi che rende otto volte di più dei balzelli sulle bollette di luce e gas ed è pari ormai al 20% del gettito dell’Irpef nazionale. I peccati, una volta, si pagavano nell’aldilà. Ora un anticipo tocca versarlo pure allo Stato.

ETTORE LIVINI

La Repubblica, 5 giugno 2017

Se l’America se ne va dal Trattato di Parigi l’effetto serra ha vinto

Che cos’è il Trattato di Parigi sul clima da cui Trump vorrebbe uscire?
È un accodo internazionale che mira a frenare il riscaldamento globale. È stato firmato abbastanza di recente, nel 2015, ma ha alle spalle una lunga elaborazione essendo erede di varie iniziative convergenti, fra cui il famoso protocollo di Kyoto del 1997, primo grande impegno sulla questione.
In che cosa consiste il riscaldamento globale?
Si tratta di un fenomeno accertato, anche se è impossibile provare al di là di ogni dubbio che sia di origine umana. Nel XX secolo la temperatura media del pianeta è aumentata di tre quarti di grado, che possono non sembrare tanti a noi profani ma in realtà bastano a influenzare in profondità il ciclo delle piogge a livello mondiale, il ricambio delle acque negli oceani, l’umidità o la siccità sulle terre emerse eccetera. Inoltre c’è un problema di prospettiva: fenomeni di questa portata hanno un’inerzia fortissima, le tendenze non si invertono se non nel lungo periodo e a prezzo di sforzi enormi, anzi c’è il forte rischio che il riscaldamento acceleri. Il timore è che nel XXI secolo la temperatura media aumenti non più di frazioni di grado, come ha fatto finora, ma di diversi gradi tondi, rendendo il nostro pianeta irriconoscibile.
Che impegni ha stabilito il Trattato di Parigi?
L’obiettivo è di limitare l’incremento della temperatura media della Terra in questo secolo a meno di 2 gradi centigradi rispetto al livello pre-industriale. Molti climatologi ritengono che questo sia già troppo perché il pianeta lo possa sopportare, ma per le ragioni dette sopra non sarebbe realistico proporsi obiettivi più ambiziosi. Anche i 2°C comunque sono problematici: bisognerebbe azzerare le emissioni di gas a effetto serra nel 2050. Ma i gas serra sono emessi dalla combustione di benzina, carbone e metano; è dura farne a meno.
Perché l’enfasi è sulla riduzione dei gas serra?
Perché c’è un vasto consenso fra i climatologi sul fatto che il riscaldamento globale sia dovuto all’effetto serra. Attenzione: i due concetti, spesso usati come sinonimi, non coincidono. I pochi scettici ammettono il riscaldamento globale, ma non credono che sia dovuto ai gas serra emessi dalle attività umane; fanno notare che in passato la Terra ha vissuto periodi anche più caldi di quello attuale, e che queste oscillazioni sono state dovute a cause naturali, quando ancora l’uomo non esisteva, o non era in grado di influire sul clima; anche stavolta le cause potrebbero essere quelle. Chi crede nell’effetto serra fa invece notare che la curva dell’aumento delle temperature e quella dell’aumento dei gas serra sono parallele, e che mai in passato le fluttuazioni climatiche sono state rapide come oggi.
Perché Trump è scettico sul mutamento del clima?
Non sembra che faccia obiezioni scientifiche ma che voglia evitare all’industria americana una costosa riconversione alle energie verdi e al risparmio energetico.
Se Trump disconosce il Trattato di Parigi che cosa succede?
I casi sono due. Se il presidente decide di non rispettare il Trattato di Parigi, ma l’America non lo segue, non cambia niente. E questo è uno scenario possibile, perché l’industria degli Usa, nel suo complesso, ha già fatto molti investimenti verso la transizione energetica, e adesso avrebbe difficoltà a cambiare strada un’altra volta (c’è una forte inerzia anche in questo, non solo nel riscaldamento globale). Se invece Trump riesce a convincere il suo Paese ad abbandonare la lotta all’effetto serra, questo può vanificare tutto lo sforzo globale in tal senso: magari l’Europa andrà avanti comunque, per convinzione, ma altri Paesi penseranno che sia stupido impegnarsi mentre gli Usa non lo fanno; tutto tornerebbe in discussione, e gli obiettivi al 2050 diventerebbero irrealistici.

Luigi Grassia

La Stampa, 29 maggio 2017

 

http://www.lastampa.it/2017/05/29/esteri/se-lamerica-se-ne-va-dal-trattato-di-parigi-leffetto-serra-ha-vinto-PaEx43JK8GApkTGA5WrQgJ/pagina.html

Sigarette: business record, nonostante i divieti

Immaginate un’industria costretta a vendere i suoi prodotti quasi clandestinamente, senza pubblicità, per farli consumare in luoghi appartati, in terrazza o sulla strada. Immaginate che la stessa industria debba pagare risarcimenti da centinaia di miliardi di dollari, che si veda gravare di tasse fra il 40 e l’80% del prezzo, che veda crollare le vendite, svanire i clienti più ambiti, quelli ricchi. Un disastro, quello attraversato, negli ultimi venti anni, dalle multinazionali delle sigarette. Da cui però Big Tobacco è uscito benissimo, fresco, pimpante, in piena salute: non ha mai incassato così tanto, le Borse si contendono le sue azioni e i profitti crescono a vista d’occhio.

Le innovazioni non c’entrano: le sigarette elettroniche o senza combustione sono una quota minima delle vendite. Qui parliamo delle vecchie, tradizionali sigarette. Il loro mistero economico è racchiuso in due dati. Il primo è quello di quante sigarette vengono vendute nel mondo. Circa 5 mila miliardi di “pezzi” nel 2001, saliti a 5 mila 750 miliardi nel 2012, bruscamente scese a 5 mila 500 miliardi negli anni successivi. Ma il fatturato non ne risente: cresce indisturbato da 350 a 700 miliardi di dollari dal 2001 ad oggi. Grazie anche a un brutale processo di concentrazione: le 5 maggiori multinazionali controllavano il 43% delle vendite globali nel 2001, oggi sono all’84%. Per metà, è un affare interno alla Cina: la China National Tobacco è il colosso statale che serve il più grande mercato del mondo. Il resto del mercato si divide fra Philip Morris (Marlboro), Bat (Lucky Strike), Japan Tobacco (Camel), Imperial (Gauloises). Ma la concentrazione non basterebbe: il segreto è nella capacità di comandare i prezzi, compensando il calo delle vendite.
Negli Usa, il numero di sigarette vendute è crollato del 37% negli ultimi 15 anni. Ma la realtà è che gli americani spendono oggi in sigarette più di quanto facciano per bibite e birra: il fatturato è aumentato del 32%. Quasi 100 miliardi di dollari, un settimo del mercato mondiale. La leva è il costo di un pacchetto, raddoppiato rispetto al 2001. E le tasse restano, per gli standard europei, basse. Non bisogna guardare New York, dove siamo ai livelli italiani (76%): l’America è grande e, nella media nazionale, le tasse incidono sul costo di un pacchetto per il 42%.
Risultato? I profitti di Big Tobacco, nel paese che più lo ha perseguito, sono aumentati del 77%. Nello stesso periodo, i prezzi delle sue azioni sono aumentati tre volte di più del resto della Borsa.

MAURIZIO RICCI

La Repubblica, 25 aprile 2017

Il «robot contribuente» e la tassa per il lavoro

L’idea di una tassa sui robot è stata sollevata lo scorso maggio in un rapporto al Parlamento europeo redatto dall’eurodeputata Mady Delvaux della commissione giuridica. Sottolineando come i robot potrebbero incrementare le disuguaglianze, il rapporto ha suggerito che potrebbe esistere la «necessità di introdurre obblighi aziendali di comunicazione su dimensioni e proporzioni del contributo della robotica e dell’intelligenza artificiale ai risultati economici di una azienda al fine di imporre una tassazione e contributi previdenziali». La reazione dell’opinione pubblica alla proposta di Delvaux è stata assolutamente negativa, con la notevole eccezione di Bill Gates, che l’ha sostenuta. Ma non dovremmo respingere l’idea pregiudizialmente. Solo l’anno scorso, abbiamo visto il proliferare di dispositivi quali Google Home e Amazon Echo Dot (Alexa), che vanno a sostituire alcuni aspetti dell’aiuto domestico. Allo stesso modo, i taxi senza conducente di nuTonomy e Delphi in servizio a Singapore hanno iniziato a subentrare ai tassisti. Inoltre Doordash, che utilizza veicoli autoguidati in miniatura della Starship Technologies, sta sostituendo il personale per la consegna dei pasti a domicilio.
Se queste e altre innovazioni che cancellano posti di lavoro avessero successo, sicuramente le richieste di una loro tassazione diventerebbero più frequenti, a causa dei problemi individuali che sorgono quando le persone perdono il lavoro, un lavoro con cui spesso si identificano fortemente e che può aver significato anni di preparazione.
Gli ottimisti sottolineano che ci sono sempre stati nuovi posti di lavoro destinati alle persone sostituite dalla tecnologia; ma, poiché la rivoluzione dei robot è in accelerazione, continuano ad aumentare i dubbi su come questa potrà funzionare. I suoi sostenitori sperano che una tassa sui robot possa rallentare il processo, almeno temporaneamente, e fornire entrate per finanziare adeguamenti, come i programmi di riqualificazione professionale per i lavoratori licenziati.
Tali programmi possono essere essenziali tanto quanto il nostro lavoro lo è per una vita sana come noi la conosciamo. Nel suo libro “Rewarding Work”, Edmund S. Phelps ha sottolineato l’importanza fondamentale di mantenere un «posto nella società, una vocazione». Quando molte persone non sono più in grado di trovare un lavoro per sostenere la famiglia, ne possono derivare preoccupanti conseguenze, e, come Phelps sottolinea, «il funzionamento di tutta la comunità può essere compromesso». In altre parole, vi sono esternalità dovute alla robotizzazione che giustificano eventuali interventi del governo.
I critici nei confronti di una tassazione dei robot hanno sottolineato che l’ambiguità del termine “robot” rende difficile la definizione della base fiscale. I critici sottolineano anche gli innegabili ed enormi benefici delle nuove tecnologie robotiche per la crescita della produttività.
Ma non dobbiamo escludere così in fretta almeno un modesto carico impositivo sui robot nel corso della transizione verso un diverso mondo del lavoro. Tale imposizione fiscale dovrebbe essere parte di un piano più ampio di gestione delle conseguenze della rivoluzione robotica.
Tutte le tasse, ad eccezione di una “tassa forfetaria”, introducono distorsioni nell’economia. Ma nessun governo può imporre una tassa forfetaria – lo stesso importo per tutti, indipendentemente dal loro reddito o spese – perché essa graverebbe in maniera drammatica su coloro che percepiscono redditi inferiori, e schiaccerebbe i poveri, che probabilmente non sarebbero affatto in grado di pagarla.
Quindi, le tasse devono essere correlate ad una attività indicativa della capacità di pagare le tasse, e, di conseguenza, qualsiasi attività interessata ne sarà scoraggiata.
Nel 1927, Frank Ramsey ha pubblicato un studio classico in cui sosteneva che per ridurre al minimo le distorsioni fiscali indotte, si dovrebbero tassare tutte le attività, e ha proposto come impostare le aliquote fiscali.
La sua teoria astratta non ha mai costituito un principio pienamente operativo per aliquote fiscali effettive, ma fornisce forti argomentazioni contro il presupposto che le imposte dovrebbero essere pari a zero per tutte le attività eccetto alcune, o che tutte le attività dovrebbero essere tassate allo stesso livello.
Le attività che creano esternalità potrebbero avere un tasso fiscale superiore a quello che Ramsey avrebbe proposto. Ad esempio, le imposte sulle bevande alcoliche sono molto diffuse. L’alcolismo è un grave problema sociale. Distrugge i matrimoni, le famiglie e la vita. Dal 1920 al 1933, gli Stati Uniti hanno sperimentato un intervento sul mercato molto più rigido: il divieto puro e semplice di bevande alcoliche.
Ma si è rivelato impossibile eliminare il consumo di alcol. L’imposta sugli alcolici che ha accompagnato la fine del proibizionismo è stata una forma di scoraggiamento più leggera.
Il dibattito riguardo all’opportunità di una tassa sulla robotica dovrebbe prendere in considerazione le alternative disponibili rispetto all’aumento delle disuguaglianze. Sarebbe naturale considerare un’imposta sul reddito più progressiva e un “reddito di base”. Ma, queste misure non hanno prodotto un consenso popolare diffuso. Se il consenso non è molto esteso, la tassa, seppure imposta, sarà destinata a non durare.
Quando le imposte sui redditi alti vengono incrementate, come solitamente avviene in tempo di guerra, risulta trattarsi di una misura solo temporanea. In definitiva, sembra naturale alla maggior parte della gente che tassare le persone di successo a beneficio di quelle soccombenti è umiliante per quest’ultime, e perfino i destinatari di sussidi spesso in realtà non li desiderano.
I politici lo sanno: di solito non conducono una campagna elettorale su proposte per il prelievo sui redditi più
alti e l’aumento di quelli bassi.
Quindi, le tasse devono essere riformulate per rimediare alle disuguaglianze di reddito indotte dalla robotizzazione. Potrebbe essere politicamente più accettabile, e quindi sostenibile, tassare i robot, invece che solo le persone ad alto reddito. E sebbene questo non significherebbe tassare il successo dei singoli individui, come fanno le imposte sul reddito, potrebbe in effetti implicare tasse un po’ più incidenti sui redditi più alti, qualora questi ultimi fossero guadagnati in attività che coinvolgono la sostituzione di esseri umani con robot.
Una tassa moderata sui robot, anche una tassa temporanea che rallenta soltanto l’adozione di una tecnologia dirompente, sembra una componente naturale di una politica tesa ad affrontare crescenti disuguaglianze.
I ricavi potrebbero essere indirizzati verso assicurazioni salariali, per aiutare le persone sostituite dalle nuove tecnologie ad effettuare la transizione verso una carriera diversa.
Ciò potrebbe accordarsi con il nostro naturale senso di giustizia e, quindi, probabilmente sarebbe destinato a durare.
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ROBERT J. SHILLER

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2017-03-30/il-robot-contribuente-e-tassa-il-lavoro-231750.shtml?uuid=AEQRycw

 

Trump studia i dazi contro i prodotti europei. Colpita l’Italia, dalla Vespa alla San Pellegrino

Far scattare le ganasce commerciali alla Vespa per vendicare il blocco europeo alle carni americane. Colpisce anche il gioiello di casa Piaggio il braccio di ferro con cui l’amministrazione Trump intende impostare le relazioni commerciali tra le due sponde dell’Atlantico. In particolare il capitolo che riguarda il divieto di importazione nel Vecchio Continente di carni derivate da bestiame trattato con ormoni, in riposta del quale sono al vaglio misure tariffarie sino al 100% del valore del prodotto. E che colpirebbero, ad esempio, l’acqua minerale Perrier e il formaggio Rocquefort di produzione francese, e la Vespa Piaggio, il mitico scooter simbolo dell’Italia che riscuote da anni un enorme successo anche in Usa. Complessivamente nel mirino dovrebbero finire importazioni per 100 milioni di dollari l’anno. La questione delle carni Usa trattate con ormoni è stata oggetto di discussione dinanzi all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e l’organismo si era pronunciato nel 2008 a favore degli Usa. A Washington era stato riconosciuto il diritto a mantenere le tariffe introdotte su prodotti europei in risposta al divieto alle carni perché quest’ultimo era stato considerato da Wto una violazione alle regole di commercio internazionale. Gli Usa tuttavia hanno sospeso le tariffe in questione dopo che, nel 2009, Bruxelles acconsentì alle carni americane non trattate con ormoni di avere accesso al Vecchio Continente. In realtà, secondo i produttori Usa, l’Europa non ha mai attuato in pieno l’apertura decisa da Bruxelles, tanto che nel 2016 l’export verso l’Europa di carni bovine americane era meno di un quarto di quello diretto in Giappone o Corea, e meno della metà di quello destinato a Canada e Messico. Il Congresso, nel 2015, ha quindi approvato una misura che rendeva più facile all’amministrazione americana, allora guidata da Obama, di adottare tariffe come ritorsione al mancato adeguamento europeo. Assieme al congelamento di tutta una serie di trattative sul libero scambio inquadrate nel più vasto negoziato Ttip, il trattato di liberalizzazione commerciale transatlantico. Con l’arrivo di Trump le misure sanzionatorie potrebbero trovare attuazione in tempi brevi.

Francesco Semprini

la Stampa, 30 marzo 2017

http://www.lastampa.it/2017/03/30/economia/contro-il-blocco-della-carne-americana-gli-stati-uniti-mettono-i-dazi-sulle-vespe-7x3apuN1FCgvf4nxLg9JSP/pagina.html

 

Sprechi: ogni anno buttiamo cibo per 12,6 miliardi

swfLa nuova parola d’ordine è raccolta in uno slogan: più prevenzione, meno rifiuti. Lo spreco alimentare in Italia resta un grande scandalo, anche morale («È come rubare il cibo ai poveri» ha detto Papa Francesco), ma per combatterlo davvero non bastano più le denunce, diventate perfino autoreferenziali, ma servono nuove iniziative, molto concrete. In tre direzioni.
In primo luogo, bisogna riconoscere che lo spreco di cibo, specie nelle case, sta diminuendo. I dati più attendibili sul piano scientifico, messi in fila dal Politecnico di Milano, in occasione della giornata, ieri, contro lo spreco alimentare, parlano di un valore annuale pari a 12,6 miliardi di euro, dei quali più della metà riguardano consumi e stili di vita domestici. Dalla spesa eccessiva che finisce nell’immondizia agli avanzi nel frigorifero che non riusciamo a riutilizzare e infiliamo nel secchio della spazzatura. Nell’ordine, secondo l’Osservatorio Waste Watcher, si tratta di frutta, insalata, verdura e pane. Ma anche carne, formaggi e salumi.
IL SONDAGGIO 
Allo stesso tempo la Coldiretti, attraverso un sondaggio capillare in tutto il Paese, ci informa che già sei famiglie su dieci, nell’ultimo anno, hanno ridotto gli sprechi alimentari, anche per effetto della Grande Crisi che sta modificando in modo radicale i nostri stili di vita. Il passo successivo, per moltiplicare il taglio degli sprechi alimentari, riguarda la diminuzione dei rifiuti. Meno imballaggi, meno contenitori, meno carte (pensate in quanti fogli e buste viene incartato un etto di mortadella). Soltanto a Roma, per fare un esempio, si producono 689 chilogrammi di rifiuti all’anno pro-capite, quasi due chili al giorno. A Berlino, per restare al club delle capitali europee, sono 442, a Madrid 377, e tornando in Italia, senza confrontare l’immondizia dei romani con quella dei virtuosi altoatesini, già a Bari la spazzatura pro-capite non supera i 584 chili all’anno. Differenze così marcate aiutano a capire quanti margini ci sono per ridurre i rifiuti, a partire da quelli di provenienza alimentare, e quindi lo spreco. Con il doppio effetto positivo sia sull’economia in generale sia sulla catena dello smaltimento che, proprio a Roma, fa acqua da tutte le parti.
Il secondo ambito di interventi, collegato al primo, riguarda la possibilità di premiare i cittadini, non chiamiamoli virtuosi ma semplicemente forniti di un buon senso civico. Una campagna all’insegna del titolo Basta rifiuti e sprechi, che dovrebbe partire nelle scuole per poi allargarsi nei quartieri, non può non prevedere un principio di buona amministrazione: chi sporca meno, paga meno. Sul sito Non sprecare.it stiamo raccogliendo l’elenco dei comuni dove già esistono riduzioni di imposte sui rifiuti, bonus per la spesa e per la benzina, e perfino sconti sulle bollette energetiche, per le famiglie che producono meno immondizia e la smaltiscono correttamente. Purtroppo, sono delibere di amministrazioni concentrate nelle regioni del Nord, dall’Alto Adige al Veneto, e del Centro, dall’Emilia alla Toscana. Questa, invece, deve diventare una prassi nazionale che trasformerebbe la lotta allo spreco anche in un’opportunità di risparmi.
LA RETE 
Infine, e siamo al terzo tassello, va ampliata e sostenuta, dal basso, la rete del volontariato, anche questa già solida, che lavora per recuperare il cibo altrimenti sprecato e donarlo alle associazioni caritatevoli. Per dare un’idea delle potenzialità di questa rete, citiamo il caso dell’associazione più efficace e più attiva nel settore, il Banco Alimentare che coinvolge, nel recupero e poi nella donazione del cibo, quasi mille aziende, 820 punti vendita e 366 mense (208 scolastiche). In Italia ci sono diverse realtà più piccole, ma altrettanto utili, rispetto al Banco Alimentare: si tratta, anche qui, di moltiplicarle, partendo dal territorio e dai singoli quartieri. Tra l’altro, ci siamo anche dotati, finalmente, di una legge che favorisce le donazioni come deterrente allo spreco alimentare, anche se non abbiamo avuto il coraggio di fare come in Francia. Qui, ricordiamolo, i punti vendita della grande distribuzione, con superfici superiori ai 400 metri quadrati, hanno l’obbligo, non la facoltà, di non sprecare i prodotti invenduti e di metterli a disposizione della rete delle associazioni. Se non lo fanno, rischiano multe salatissime.
Anche in Danimarca, il paese europeo che ha ottenuto i migliori risultati nella lotta allo spreco alimentare grazie alla campagna capillare Stop Wasting Food, il recupero del cibo parte dall’educazione nelle scuole, passa per i punti vendita della grande distribuzione, e sbarca nelle case dei cittadini. Dove vanno di moda le ricette dei grandi chef danesi che, a differenza di quelli italiani abilissimi a truccarsi da guru e filosofi televisivi del nulla, hanno firmato, con senso pratico e con un briciolo di salutare responsabilità, le loro ricette d’autore, ispirate alla cucina degli avanzi.

Antonio Galdo
Il Messaggero 6 febbraio 2017
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La fabbrica dei somari

asini1Quando comprò i suoi primi tre somari da un contadino del Reggiano, all’inizio degli anni 90, gli asini in Italia si stavano praticamente estinguendo, perché all’agricoltura meccanizzata non servivano più a niente. Oggi Giuseppe Borghi, 71 anni, nella sua azienda agricola di Montebaducco ne ha 800 di otto razze diverse, il che ne fa l’allevamento più grande d’Europa: romagnoli, amiatini, di Martina Franca, e poi sardi, irlandesi, egiziani, spagnoli, di San Domenico, vivono in semilibertà fra stalla e colli del primo Appennino reggiano. Il latte d’asina, il più simile al latte materno della razza umana, viene munto e liofilizzato sul posto per poi essere distribuito nei negozi bio di tutta Italia – è in assoluto il più indicato per i bambini intolleranti al latte vaccino -, oppure viene usato per ricavarne dei cosmetici (qualcuno ricorda i leggendari bagni nel latte di Poppea?).
Ma non finisce qui: i ciuchi, probabilmente più intelligenti del cugino più nobile, il cavallo, e sicuramente più mansueti e affettuosi, vengono acquistati nelle strutture per anziani, oppure sono usati per la pet therapy con i disabili. C’è anche chi, avendo lo spazio, se li compra come animali da compagnia: «Un signore ne ha voluti due per festeggiare i dieci anni di matrimonio, e una ragazza l’ha chiesto come regalo di fidanzamento – racconta Borghi -. Mantenerli costa meno di un cane, bastano quattro chili di fieno e uno di farina al giorno. Noi ne vendiamo circa 200 all’anno, il prezzo varia fra i 400 e i mille euro. Oltre ai privati fra i nostri clienti ci sono case di riposo per anziani e centri per i portatori di handicap». L’anno scorso si è fatto vivo addirittura papa Francesco: «In Vaticano avevano saputo della nostra attività, così abbiamo pensato di regalare al Pontefice due asini, che adesso stanno a Castel Gandolfo. Quando ci siamo incontrati, il Papa ci ha raccontato che il suo interesse per i nostri animali è nato perché lui da bambino aveva bevuto il latte d’asina: sua madre non aveva il latte, e un tempo si rimediava così».
Del resto la passione di Giuseppe Borghi, che oggi si coccola i suoi ciuchi con amore paterno, ha origini antiche, che risalgono all’epoca in cui i somari erano una presenza necessaria in ogni fattoria: «Mio padre, che faceva il contadino, ne aveva uno che poi ha venduto quando ha preso il trattore – spiega accarezzando il testone di Willy, un maschio grigio di quattro anni accorso subito al suo richiamo -. All’inizio, quando ho pensato di cominciare ad allevarli, ho fatto fatica a rintracciarli, perché in Italia erano quasi scomparsi. Poi, uno o due alla volta, ne ho trovati in Abruzzo, in Toscana, in Sardegna, dove erano un po’ più numerosi. Nel ’96 ne avevo una cinquantina, nel 2000 abbiamo cominciato a mungerle. Ogni asina produce un litro e mezzo di latte al giorno, siamo ben lontani dalle mucche, che ne fanno 40». Ecco perché il prezzo di un litro è di 15 euro, mentre il liofilizzato raggiunge i 30.
Oggi l’azienda di Montebaducco, dal nome del colle dove i ciuchi scorrazzano in libertà prima di tornare alle stalle, è l’unica a ospitare l’intera filiera, dal foraggio naturale al confezionamento del latte liofilizzato, e per l’anno prossimo si prepara a un’altra esclusiva: «Produrremo il formaggio, una cosa non facile perché è un latte magrissimo, e siamo riusciti a trovare il caglio giusto, che è quello del cammello. Saremo pronti a metà del 2017».
Intanto le asine si mettono disciplinatamente in fila per essere avviate alla mungitura, come se qualcuno avesse detto loro che è arrivato il momento: «Glielo abbiamo insegnato e loro hanno imparato, gliel’ho detto che è un animale intelligente».
Poco lontano ecco il reparto maternità, con le esemplari gravide e le madri coi cuccioli appena nati: «A differenza di quel che avviene negli allevamenti intensivi di ovini, dove i vitelli vengono strappati alle madri appena nati, qui i piccoli restano con loro – spiega Borghi -. La qualità del latte è migliore, perché non c’è lo stress del dolore della separazione. D’altra parte, l’asina non farebbe più latte se non fosse stimolata dal piccolo».

Franco Giubilei
È diventato leader in Europa prendendo in azienda solo asini
La Stampa 13 settembre 2016

Lo zucchero e la lotta di classe

sugarViviamo nell’epoca delle bustine. Quasi tutto quello che mangiamo ci raggiunge attraverso buste di diverse dimensioni. Lo zucchero, ad esempio. Sul bancone del bar ci sono almeno tre bustine: lo zucchero semolato bianco, lo zucchero bruno di pura canna e un dolcificante a base di saccarina sodica. Lo zucchero oggi costa poco. Se vogliamo comprarne un chilo basta entrare in un supermercato: 0,70 euro quello bianco raffinato, o 2,5 euro il bruno. La strada che lo zucchero ha percorso per arrivare sino a noi, e raggiungere prezzi così contenuti, è stata lunga e complessa. Quello che usiamo è saccarosio estratto dalla canna da zucchero; può anche essere derivato dalla barbabietola, ma solo a partire dall’Ottocento.
Il saccarosio è un composto chimico organico della famiglia dei carboidrati estratto da un vegetale il cui nome scientifico è Saccharum officinarum. Proviene dalla Nuova Guinea dove, secondo i botanici, sarebbe stato addomesticato alcune migliaia di anni fa. A partire dall’8000 a.C. è arrivato nelle Filippine, in India e poi in Indonesia. Ma sono dovuti trascorrere decine di secoli affinché giungesse da noi a partire dalle isole dove spesso si pensa sia nato: i Caraibi. Lì l’ha portato invece Cristoforo Colombo in uno dei suoi viaggi, nel 1492. Solo dopo questo trasferimento lo zucchero è diventato ciò che è oggi: un alimento. Tra la Guinea e i Caraibi c’è di mezzo, come ha raccontato l’antropologo Sidney W. Mintz (Storia dello zucchero, Einaudi), un’altra storia, quella dello zucchero che circola per il Mediterraneo e raggiunge alcuni lidi dell’Europa. Il saccarosio ha seguito il Corano. Sono stati gli arabi nella loro espansione militare e politica a portarlo in giro. Una storia complicata. Nel 1000 d.C. pochissimi in Europa conoscevano lo zucchero, nessuno o quasi in Inghilterra. Non era un alimento, bensì un medicamento, sostanza officinale. La dolcificazione delle bevande si otteneva con il miele e i derivati della frutta o sciroppi vari. Prima di diventare cibo è stato una spezia, e come tutte le spezie, dal pepe alla noce moscata o allo zenzero, era disponibile solo in piccole quantità: bene di lusso. A usarlo come medicamento, o per conservare il cibo, in alternativa al costoso sale, erano pochissimi: re, regine, nobili.
Lo zucchero ha funzionato come sistema di distinzione sociale ed economica. Le storie della tecnologia spiegano che estrarre lo zucchero dalla canna non è un procedimento semplice e immediato. Necessita prima di tutto forza-lavoro, che da un certo punto in poi ha significato: gli schiavi. La cosa interessante è che nessuno degli alimenti che usiamo oggi in Occidente nasce come un fatto “naturale”.
L’antropologo francese Lévi-Strauss l’ha spiegato in modo icastico: prima di diventare “buono da mangiare” deve essere “buono da pensare”. Detto altrimenti, il cibo è sempre un’invenzione culturale, effetto di un processo di civilizzazione. Nelle mani degli arabi e dei loro successori si è trasformato da spezia- condimento e conservante in un simbolo sociale, poi, molto tempo dopo, in un alimento. La sua storia, ricorda Mintz, “è determinata dalle preferenze culturalmente determinate per l’una o l’altra qualità”.
Certo, c’è la questione della dolcezza. Il saccarosio estratto dalla canna si è imposto tra le preferenze alimentari degli europei come soddisfazione di un bisogno, ma questo solo dal 1650 quando l’Inghilterra ne ha fatto uno degli alimenti principali. È allora che diventa il genere coloniale più ricercato insieme con il tabacco, oltre che la fonte principale di dolcezza degli abitanti dell’Inghilterra. Avviene la sua trasformazione. Mintz scrive che lo zucchero è stata la prima merce esotica prodotta su vasta scala per la necessità di una classe di lavoratori proletari. Questo nel momento in cui, a metà del Settecento, comincia a svilupparsi il capitalismo mercantile e nascono le fabbriche moderne. L’antropologo sostiene addirittura che le prime vere fabbriche non sono quelle descritte da Marx in Inghilterra, bensì quelle create nei Caraibi per far fronte alla richiesta di zucchero della operaia inglese.
Senza lo zucchero probabilmente non ci sarebbe stata l’energia per lo sviluppo capitalistico. Senza lo zucchero il caffè e la cioccolata non si sarebbero diffusi da noi, e il tè imposto come la bevanda nazionale degli inglesi. A un certo punto gli abitanti della Gran Bretagna lo trovano sul mercato a tonnellate: è sceso di prezzo grazie al lavoro schiavistico e alle tecnologie di trasformazione.
Secondo gli studiosi lo zucchero sarebbe un “livellatore spurio di status”: passando dai re alla borghesia, e da questa alla classe operaia, ha perso nei secoli il suo valore distintivo. In compenso, ha aumentato la disponibilità di calorie del proletariato urbano, in concorrenza con il deleterio alcool di rum e gin. Un passaggio decisivo l’hanno prodotto le marmellate. Meglio: pane e marmellata. Dal 1870 in poi confetture e classi lavoratrici si trovarono congiunte; sciroppi, dolcificanti liquidi e semiliquidi hanno cambiato la dieta di migliaia di persone. Tutto merito del saccarosio. Alcuni studiosi sostengono che nell’Ottocento diventò addirittura uno dei narcotici del popolo. Di certo cambiò il destino di un paese. Del resto, come “droga” lo zucchero è meno impegnativo di alcool, caffeina e tabacco; fa meno male, anche se oggi è tenuto in gran sospetto. Il saccarosio ad alto grado di raffinazione produce effetti psicologici speciali; fa bene all’umore e determina una dipendenza, seppur minore delle altre “droghe”. Non dà ebbrezza o euforia, bensì uno stato di benessere, almeno temporaneo. Per questa ragione è stato meno colpito da interdetti religiosi, come è accaduto invece a caffè, tè e cioccolata ai loro inizi. Dal Seicento in poi, tutti a zuccherare. Perché amiamo tanto lo zucchero, o almeno i cibi in cui lo si usa con abbondanza? Non c’è certezza al riguardo. Gli antropologi sostengono che dipende dai nostri antenati che si cibavano di bacche e frutta. Altri che abbiamo una predisposizione naturale al gusto dolce. Tra i vari gusti percepiti dal nostro palato ci sono varie combinazioni: paesi che oppongono il dolce al salato, altri al piccante. La cosa più interessante è che proprio perché non è solo un cibo, ma anche un sistema di relazioni sociali, culturali, economiche, estetiche e perfino mentali, nessuno sa dire con certezza perché lo zucchero estratto dalla canna sia diventato così importante in Europa dopo il 1650. C’è e basta. Oggi costa davvero poco. In bustina, poi, è gratis.

Marco Belpoliti
La Repubblica, 18 luglio 2016